La magnese del Fabbri. Viareggio delle estati.

La magnese del Fabbri a manciate ci schiumava in bocca più del libeccio sulle onde delle nostre sverinate di poco prima, le schiene inarcate, il petto a dividere le acque come nemmeno Mosè, come lanciati verso una salvezza, la testa immersa tra le braccia allungate in avanti, le punte delle dita a polpastrelli raggrinziti che facevano a tratti capolino dall’acqua là in cima alle mani distese a emergere mentre si scivolava veloci verso le secche, a navigare come temperini sull’acqua sempre più bassa, sempre più bassa, fino a raschiare il fondale ondulato, fino a terra, a riva, ormai arenati, spiaggiati, le ultime lingue di mare che ci raggiungevano carezzevoli ci scavavano intorno ai fianchi in mulinelli morbidi a riempirci i costumi di sabbia. Ora, al libeccio in cima alle cabine la magnese del Fabbri a manciate ci schiumava in bocca, il cartoccino di carta grigina subito vuoto. La prossima volta forse sarebbe stata una gazzosa.

Viareggio delle estati.

2 agosto 2021

Il tempo è implacabile. Ragù e zucchine.

Il tempo è implacabile.. quando un’epoca è passata, è passata. E non è più l’epoca in cui qualcuno ti vizi, nessuno ti vizia più. Nemmeno le amiche più più più ma così più che per te, guarda!…, farebbero chi sa che… Nemmeno le rosticcerie-gastronomie-delicatessen-vien dal mare. Nessuno, niente, nada, nisba, nessuno ti fa più gli zucchini ripieni. E allora? E non te li puoi fare da te? No. Eh no. Perché come tutte le cose speciali di questo mondo, anche gli zucchini ripieni se te li fai da te fanno l’effetto di un regalo di Natale che ti sei comprato da solo un giovedì a caso di dicembre. Ma quella voglia.. quella voglia… Sai non è poi tanto grande in fondo… se lo si guarda sul mappamondo… E uno se la sogna anche la notte e ci si sveglia la mattina, non con quella voglia, che di mattina appena svegli non ci sta, ma con quell’idea lì. E allora uno, a tentoni, gli occhi semichiusi della domenica non troppo presto, decide di tagliar corto, prima di farsi il caffè apre il frigo, tira fuori dal congelatore il ragù che si è fatto la settimana prima e che come tutti i ragù col tempo è diventato più buono, lo mette a scongelare e capisce che ha deciso di volersi bene. Domenica! Vivement dimanche! Domenica è sempre domenica. Sora Menica, oggi è domenica, lassece sta’. Il ragù lì che scongela e lui via per Pedona lungo la via nei boschi sopra Pian di Mommio. La ricetta del ragù? La stessa per tutti, ognuno a modo suo. Il ragù è una delle cose che più somigliano, in ogni sua riuscita, a chi lo fa. Il ragù è il ritratto di se stessi. L’impronta del proprio palato che nemmeno.. nemmeno… nemmeno il commissario Ingravallo del Pasticciaccio. Sicchè, il ragù e lì, scongelato, mia carta d’identità, i piedi giù in fondo alle gambe, li sento ancora sui ciottoli del monte. Gli zucchini nell’acquaio a lavare; li asciugo e li taglio a metà in lunghezza e poi a tocchi, alla camaiorese, diceva la Chica. Il tegame di misura strategica è sul fuoco, con poco poco olio a scaldare bene. E gli zucchini a tocchetti appena ci arrivan dentro ci fanno sfriii sfriii. Come ci fanno gli zucchini a tocchetti? Sfrii!… sfriii!… mentre li giro e li rigiro perché facciano la pellicina sul verde senza sbruciacchiarsi. Guardo la pasta nel pacchetto che mi guarda dalla finestrina trasparente come a difendersi già delle boccate che le darò e mi spara in faccia il suo nome, come se fosse un’ancora di salvezza, un’ultima difesa possibile… Rummo! Solo per te la mia canzone voooola! Ha poco da cantare… Gli zucchini sono al quarto minuto di sfrigugliamento, si prendono una spelucchiatina di peporin-timo e un po’ di sale, un altro mezzo minuto di rigirate sul fuoco molto alto per un altro po’ di pellicina e via che gli piove addosso il ragù scongelato che ricco lo ammanta nell’abbraccio della ricottura insieme. Lo sento già dall’odore il sapore degli zucchini ripieni che non dico le rosticcerie-gastronomie-delicatessen-vien dal mare, ma perfino le mie amiche più più più ma così più che, per te, guarda, per te!.. non mi fanno più. Nun t’accora’.. nun t’accora’!… Ma ci siamo!… la pasta è pronta, di molto ma di molto al dente! …nel ragù salta… zucchin non manca… sul fuoco sventola… bandiera bianca?.. macché!… il gran pavese!!!… Andiamo, è in tavola.

 

(Parmigiano – uno dei grandi sovrani del mondo – a piacere).

 

P.S.

Piatti sempre rigorosamente bianchi… i colori trionfali sono quelli dei cibi.

 

Balenciaga e i dracula

Balenciaga                                         fall-winter 2017-2018

Balenciaga si rivoltera’ nella tomba. I parvenues arrivano ovunque, da sempre. Sono arrivati anche da lui. Rappresentarlo in toto, come qualcuno ha scelto di fare, con questa immagine della collezione 2017-2018 è come mandarlo a cicoria (eufemismo sprecato, vista l’offensività della foto). Come mettere sulla tomba di un morto uno scatto rubato mentre era in bagno con una colica intestinale. E qui, tra l’altro, la colica intestinale non è nemmeno del morto. Come pubblicare il De bello Gallico illustrato con disegni di Giulio Cesare mentre omaggia delle proprie terga l’annoso Nicomede di Bitinia. E lì, almeno, le terga sarebbero di Cesare. Pessima operazione come lo sarebbe dimostrare un periodo storico secondo una logica morale di un altro. Può solo confondere le idee a chi non ha, tra l’altro, almeno il gusto naturale per distinguere M.me Grès dal famolo strano. Sciamani come San Giorgio con l’estintore. Nell’eventuale eccentricità della haute couture – la alta consutura – di Balenciaga, oltre ad inarrivabilità irrealmente porte come raggiungibili c’era il segno, il cadere, il fiorire, il variare, il vestire e la vestibilità, linee e sbuffi, restringimenti e abbondanze, allungamenti e accorciature, sbiechi e a piombo, tracce, percorsi, proseguire e riferirsi a logiche rinvenibili e riapplicabili a modelli, nobili o comunque non dozzinali, di ogni epoca precedente snocciolata come la sezione aurea nell’insieme e nei dettagli con le matematiche sapienti e naturali e strutturali  insite nella genialità. Cosa che non avviene quando un bottone non architetta un tessuto come una fibula né lo umilia come un rammendo neorealista né rigenera l’estemporaneità e immediatezza di un cerotto post-village né lo impuntura col miraggio di un futuro interplanetario, quando un arruffio non è un panneggio, quando la sgualcitura non fa la toga, quando un pensiero non dà il la ad un periodo ma si accovaccia su umori correnti, quando chi è trattato da grande non sa o cavalca come un cavalluccio a dondolo non troiano l’onda del non sapere cosa farà da grande e scriverà un segmento di storia trapuntata dei crucci, delle ubbie, delle tragedie depilate di un periodo peloso come il lupo cattivo. Ciao, Pierpaolo, che avete discusso oggi con Il Gruppo Finanziario Tessile? Orli e imbastiture come monorotaie del moderno moralismo classico, il MET come il Sistema. Concept zip, post-mutandismo. Come il promuovere l’universale diritto dell’umanità a una crisi identitaria che ne avvolga di fumo le cause e il loro irrinunciabile inestinguibile incremento. Come una crisi di governo innescata da tronfi tartarini-tamburini di lega leggera telecomandati dai poteri forti pro loro sottomarine battaglie navali finanziarie. Come una mania, una compulsione, un tic, sintomi dilaganti, estranei al raffinato gusto della replica, ordinari come lo è l’attaccarsi sempre all’ultima parola detta, il rispondere sempre soltanto a se stessi. Come salvare il mondo con le nostre soluzioni emerse come Veneri da sotto la schiuma da barba dal barbiere. Come quando una rosa non è una rosa né un crisantemo ma gramigna… Ofelé ofelé.

Conosco giornaliste di moda provenienti da partenze impensabili per una giornalista di moda, soprattutto se nella sua vita laica precedente l’aver preso i voti non ha mai azzeccato una maglietta con un pantalone, un golfino con una gonna, in un nuotare a rana nel non stile dello strangolarsi in sciarpette arrotolate male al collo pur di evidenziare delle per lei presunte firme di pregio che al solo leggerne le prime sillabe si era investiti da una zaffata della tristezza delle fiere di carità. E via, nella sua conversione, una volta unta, a parlare di assoluta indiscutibile sacrosantità della moda fin nel suo ultimo orlo. Lo stesso vada per fotografi di moda che della moda non hanno mai avuto la percezione, nessun rapporto sensuale, e da laici vibravano più per il manico di una tazza da caffelatte che per un cadere bene di un taglio perfetto in un tailleur, un abito cocktail, un sera, un trapezio, una proporzione, l’equilibrio rarefatto di un eccesso, rimasti fotografi insensibili al capo, a vita, nonostante la ormai annosa pratica. In questa fucilata sparata a Balenciaga alla luce del consunto principio uccidi il padre e la madre, almeno il fotografo è sensibile al capo che fotografa; tant’è che lo sbugiarda e dispettosamente lo tinge delle tinte di un non rivendicato sacrosanto diritto della moda ad essere moda, lo accende di una spennellata che evidenzia il sapore di anelata anabasi, svela la pur sempre inspiegabile voglia di riscatto mascherata da libertà del sarto che nella veste del sarto si sente stretto, sprecato, come una studentessa di filosofia fra i tavoli della trattoria dove lavora per mantenersi agli studi, e rincorre la catarsi smandrakando, senza riuscire a sfondare la parete, attraverso un pretesto vecchio che odora della muffa del punk e di tutti i postumi di postismi moderni o avanguardistici che siano. Non è più la crisi della società, lo dicevo, è la crisi della sartoria. Lo slogan, che ronza come un nugolo di zanzaracce intorno a questo manifesto di rose colte e ricolte sfiorite e appassite e marcite canta la spudorata nenia erroneamente fatta passare per sussurrata delle buone cose di pessimo gusto. Quelle non sussurrano, urlano, hanno sempre urlato. E grazie al cielo, sono certo, il mio mal di testa non ha nulla a che fare con il gap cosmico della mancanza di senape in un giorno di neve.

Esiste anche la cultura del brutto che non collocherò territorialmente, che fa parte di gusti locali, di civiltà in cui l’eroe è magnificamente cattivo, le mamme muoiono e i bimbi s’arepijano cantando su un prato a strapiombo sulla felicità, esistono territori della storia in cui l’arte del disseminare di Medea ispira strategie di sopravvivenza vittoriose, esistono terre, mentali o no, dove si coltiva la bellezza dell’orrido  (vedi bruttezza del design francese in molta oggettistica Anni 30), per cultura, per estetiche etnogenetiche, ma anche lì, se si lancia un ponte ad attraversare uno stretto, lo si vede arrivare sull’altra sponda, in un qualche accidenti di altra parte; più riscontrabile fisicamente che concettualmente, quando si tratta di robe. O anche no, ma allora si tratta d’altro. La professione della signora Warren era inequivocabile, come la quadratura del cerchio. Lo schiavismo della libertà. La meravigliosa pasticceria di Trieste, dove le commesse in guanti bianchi armate di pinze asburgiche servivano mignon microscopici sulle trine di piattini di porcellana. Il mio cuore che da sempre palpita per il catalogo Black & Decker ne usciva diabetico. Che poi va bene tutto, invece, come è anche sacrosanto tutto il contrario di tutto quello che ho detto fin qui. Viva le pitture rupestri del Borneo e viva Rembrandt, Vasarely e la moka, Narnia e Narni, i misteri eleusini e il quesito con la Susy, Icaro e lo skateboard, Policleto e il silicone. Viva la sperimentazione viva , viva l’Avanguardia, quella vera, quella approssimativa e perfino quella scaltra, viva lo slancio verso qualsiasi direzione che colga ‘ndo colga come un Nostòs nella buriana, in un tifone e in bonacce da vertigine, viva le Veneri e le veneree da Factory, viva il pistone ovale nel cilindro zigzagato, viva, Viva, VIVA! Ma, una precisazione che mi preme davvero: di diabete, è poi morta l’orrenda Mary Poppins?

Cristóbal Balenciaga Cocoon coat 1957
Alberta Tiburzi in Envelope Dress by Cristóbal Balenciaga                            Hiro  1967 June Harper Bazaar

Balenciaga                                  fall-winter 2017-2018

FOTTUTI ORDINARI IMMALEDETTITI

Ed eccoci, alla fermata attuale del viaggio compiuto in millenni tra irrinunciabili, indispensabili sciamani, sacerdoti, pizie e fattucchiere, allora ed ora assimilatori accumulatori, insieme a piccoli e grandi segreti altrui, di piccoli e ingenti capitali, di fondi  serviti, che servono e serviranno a finanziare giuste ed inique cause, in una realtà  al soldo di una ragione economica a cui e in cui si è inevitabilmente convertita, e può non essere un azzardo dire rivelandosi nella sua fondamentale natura, la ragione dell’umanità. Ed eccoci al nostro punto sul segmento valutabile più o meno lungo di un’attendibile storia tracciata, dopo millenni di intermediari dei molti Dio, unificati, in ogni epoca, ad occorrenza, nel dio Denaro. Eccoci, inclusi ed esclusi, alle indulgenze, pur rinascimentali e scintilla della riforma dopo le relativamente recenti immani filosofie medievali, dopo la cercata e con forza voluta interiorizzazione e spiritualizzazione del peccato, dopo la conversione della confessione da collettiva in individuale, la valutazione del peccato (considerata da Le Goff ne “La borsa e la vita”) modellata sui parametri personalizzati che possono giustificare l’errore del penitente: situazione familiare, sociale, professionale, circostanze e motivazione del peccato. Il confessore deve raccogliere l’ammissione di colpa, il pentimento del peccatore: deve mondarlo, più che punirlo. E’ l’aggiornamento dell’intermediarietà sacerdotale, un’acquisizione dati in modalità auricolare, adesso, da bocca a orecchio, nella pratica della confessione che nel 1512 il IV Concilio Lateranense stabilisce obbligatoria almeno una volta all’anno, a Pasqua. Non oracoli, non pizie: confessori,  più che meno in funzione orientata, intermediari acquisitori di dati fusi piombati in archivi la cui non divulgazione è garantita protetta dal segreto della confessione;  bureau, service. Intermediari della necessità dei quali siamo sempre stati per natura misteriosamente convinti e, sapientemente, apertamente o subliminalmente stati  convinti. Intermediari che sempre,  nella storia dell’uomo, in ogni epoca, funzione e collocazione, sulla base di un rapporto verticale con un punto di riferimento di cui ha bisogno l’essere umano per fuggire la paura, identificare il bene, sono stati e si sono offerti ed imposti, portatori di autorevolezza o di ieraticità, come sovente di ghigno; intermediarietà ferina o spudorata astrale, che poi in una grande epoca di ricerca profonda, determinata e convulsa della luce si fa fiamma gotica,  esattamente allusiva, intermediarietà che, pur destinata ad attraversare epoche che partoriscono utopia e riforma e ad oltrepassarle, si pone e mantiene minacciosa, grifagna come gargolle cheratoconiche indagatrici, le gole contratte nello sprofondo delle loro bocche spalancate, sulle punte delle loro lingue biforcute, nelle loro simbolicità. Salvezza offerta e cercata che si deforma nel suo significato attraccando secondo necessità a sempre nuovi approdi, fino ai moli dove adesso si arriva già crocefissi, le braccia spalancate, pronti per la scansione, bersagli centrati offerti a un occhio che vogliamo essere certi ci guardi, nudi, confessati, offerti, immolati a una qualsiasi incandescente pupilla ipnotica di un qualsiasi led, di un qualsiasi occhio-taccuino che sia ON, insuperabile nell’acquisire e  riporre ordinatamente, aggiornatamente, schematicamente i suoi fogli in un archivio subdolo ma non tanto, commercialmente utile ma non poco, nell’eternità di un assoluto economico: causa universale alla quale viene sacrificato e si sacrifica l’individuo senza causa nell’annientamento della sua insacrificabilità. Pupille incandescenti gelidamente interessate in un gioco voyeristico di totale indifferenza per ogni centimetro che dell’individuo comunemente scannerizzato non caratterizzi il suo potenziale apporto al consumo, a vantaggio e a carico di una società che dell’acquisizione dati ha fatto il proprio portierato e del quale è portiera in un linguaggio di scambio prostituente e intenso quanto una verità emersa in portineria. Non sappiamo più rinunciare ad affacciarci alla concierge,  penzolare ridicoli alla finestrella della guardiola, così volentieri fottuti, ordinari immaledettiti,  spaccati e spacciati dall’ambizione di incuriosire.

La fiamma della Vanità

 

Salvini, come avviene agli aspiranti plenipoteristi (senza corrispondere le reali capacità tecniche di risolvere i problemi socio-economici) è ormai talmente divorato dal rogo della Vanità che pur di affermarsi come primo ballerino farebbe anche il coreografo che non è in grado di fare. Non ci sarebbe da stupirsi se anche dichiarasse guerra all’Abissinia, al Tavoliere delle Puglie, a un formichiere dello zoo di Lipsia, agli avi dei Mau Mau e a un discendente a caso di un ramo a caso dei Borbone. Nella maniera più speculativa e meno nobile, guadagnandosi la solita pole position nel rivelare grandi verità a tutti drammaticamente già note e parzialmente già pagate e seriamente considerate e poste come realtà da affrontare, parla adesso, come sempre, non tuffandosi e riemergendo nel porsi un problema e nuotando in una sua soluzione degna della evoluzione umana ma anche questa volta galleggiando sulla superficie dell’effetto di una parola: stavolta è fame… una parola che la gente capisce bene anche se in lui è solo retorica, moralismo diffamatorio di ogni potenziale dignità dei cittadini, che specula su una terribile seria minaccia. Una condizione incombente, molto probabilmente, se non sicuramente, inevitabilmente capillare e futura, che invece per molti si è anche giâ precocemente avviata sulla la via della scontentezza sul propulsore del non avere il caciocavallo, la grigliata in piazzetta, quella salsiccetta  che piace tanto al pupo; che probabilmente diventerà presto un Salvini Ci Salverà mentre per marito, zio,  cugino o ganzo si profilerà il rischio cassa integrazione o licenziamento, tanto per minimizzare (conosco giovani carpentieri, promossi di categoria a luglio, per i quali il rischio si è già profilato). E intanto non si è capaci di chiarire a coloro che capiscono solo il linguaggio della retrività, in termini popolarmente esplicativi come quelli cui lui ricorre con l’ovvietà non banale dell’astuzia, quanto Salvini non sappia fare altro se non stare all’opposizione come tutte le opposizioni non sacre e mai sante anche quando sarebbero state nelle condizioni di poter governare. Salvini cavalca l’esaltazione senza avere competenze tecniche per affrontare i problemi che sbandiera in un mulinello, specialmente adesso, di incitamenti da guerra civile. Esattamente come l’esercito dei capaci non di pensieri ma di slogan e retoriche d’artificio: un esercito che di continuo si sparpaglia e si ricostituisce nell’addensarsi o diradarsi delle zone più facilmente navigabili sulle macchie d’olio del pericolo. E lui e i simili che rappresenta, si esaltano delle vibrazioni che dà loro la paura adrenalinica delle responsabilità: paura che sotto sotto hanno e li fa vibrare emozionandoli fino a portarli a fremere e tremarne davvero, come un giocatore smandruppato di roulette trema per il rosso e il nero. E quando quella loro paura raggiunge temperature da fusione, la trasformano nelle paure più retrive con le quali fanno leva e accoliti, e al governo ci vogliono andare per ciò che ormai realmente li divora e ci divorerà: la loro sacra fiamma della vanità. Come successe con l’Impero e meraviglie a seguire.

Italia magnifico quartiere residenziale, non periferia economica dell’Europa

 

Italia è uno dei più bei quartieri residenziali d’Europa, mi guardo dal dire il più bello per evitare enfasi e nazionalismi che è bene lasciamo ad altri, in ogni loro forma. Nessuna delle quali forme, però, deve sfiorare la pur minima idea che Italia, come ogni altro Paese europeo in eurozona o no, sia periferia economica. Oggi (lunedì 30 marzo), a quanto pare, Macron ha cambiato direzione di marcia: dalla posizione di complice di nefandezze come i meccanismi economici penalizzanti il nostro Paese, è passato ad altra a sostegno di Italia e Spagna. Bene, sarebbe rassicurante, per quello che può rassicurare; perché resta sempre chiuso, ma tremendamente maleodorante, l’armadio con dentro i brandelli di come gli über alles cucinarono la Grecia affibbiandole anche carichi che in realtà erano serviti a pagare i debiti della Francia. O sbaglio? E se non sbaglio, non esiste un tribunale atto ad appurare responsabilità e manovratori e condannare per crimini come quello? Ma con ergastoli veri. All’interno dell’eurozona, non al largo di Utopia o dell’arcipelago promesse dove magari governerebbe il solito immancabile scellerato che cavalca la determinazione più dozzinalmente retrograda e le sciagure a propria propaganda.

Il Bello Della Diretta o l’Asse di Variazione

Asse di variazione – da panico per coronavirus a terrore panico del crollo dell’economia. Enormità di un problema. Palazzo Chigi, diretta streaming 11 marzo 2020. Non remota l’impressione che il governo Conte (forse come avrebbe fatto qualsiasi altro governo) nel rimettere la questione alla coscienza di altri liberi di decidere, a loro discrezione, in merito, si sia un po’ lavato le mani (eufemismo) dalla responsabilità di stabilire precise disposizioni (chiusure) a tutela della salute di chi lavora nelle industrie: operai. E con loro, gli altri lavoratori che, in grande parte dei settori, sono impegnati in attività per le modalità ed esigenze delle quali non possono evitare il gomito a gomito, il contatto ravvicinato tra loro o con attrezzi e materiali trattati in comune. E nella stragrande maggioranza, lavorano nella stessa fabbrica, cantiere, industria, in una pendolarità da diversi comuni, spesso significativamente distanti tra loro e dal luogo di lavoro (e qui si apre il fuoco d’artificio, dai contorni simili al sorriso di un emjoi, del modulo di autocertificazione personale, conditio sine qua non). Paura del Sistema? (urlo della folla: “Sììììì”). Ancora a chiedere al Sistema di essere super partes? Come chiedere ad un daltonico di preparare una mazzetta colori. Il problema, grosso, multilama a centomila tagli, è rimasto, rimane da affrontare.  Certo, se il governo Conte avesse disposto responsabilmente anche la chiusura immediata delle “fabbriche” avrebbe esplicitamente automaticamente incluso anche il settore tra quelli aventi diritto a nuovi “interventi di sostegno” stabiliti da parte dello Stato. Un botto! Da far saltare in aria i tombini di tutto lo Stivale. Un po’ troppo anche per i governi di buona volontà, certo. Troppe fette per una torta sola. E piccola nonostante l’orgoglio del Premier nello scandire ven-ti-cin-que-mi-liar-di. E la cerimonia non si svolgerebbe a Cana. Questo matrimonio non s’ha da fare?  Intanto sta, è stato già, ad alcuni Consigli di fabbrica nelle aree soprattuto del medio-grande indotto decidere per l’unica soluzione al momento attuabile: diradare la presenza di lavoratori invitandoli a consumare l’ammontare di ferie maturate e finora non godute. Insomma, godetevi ‘ste vacanze. Fino al 25 marzo. Trionfo dell’ottimismo sotto il mantello della prevedibilità e dell’apparente momentaneo “così non si fa male nessuno”. Poi, al primo starnuto di uno, la cassa integrazione per gli altri? Avremo un altro esempio di buona amministrazione? “Anche la Speme, | ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve | Tutte cose l’obblio nella sua notte“.  “Via dai pazzi sepolcri”, almeno per l’espace d’une nuit, è sembrata la quasi commossa chiosa della diretta, nello sguardo del Primus inter pares da estenuato “non solo al comando” dopo una prova tutta corsa “al gancio” in attesa del bacetto della miss all’arrivo di tappa. Ma sì, ce l’hanno messa tutta, basta col pensiero che ci hanno provato un’altra volta. E anche noi spegniamo la luce e ci mettiamo su un fianco, a dimenticare, anche noi, almeno per lo spazio di un sonno. Senonché, ecco che si riaccende la lampadina di Eta Beta, già mezzo assopiti sgranocchiamo una pallina di naftalina sempre pronta sul comodino e, flàafff, prende luce la pretesa, il sospetto, legittimo, da figlio del Paese, che ai governi non spetti mai il diritto, anche per una sola notte, a sonni tranquilli. Ed ecco il turbinare di pensieri, eccoci vagare sulle dune del calcolo delle possibilità, persi nel ronzio del cervello che vibra a prender la mira sperando immodestamente in un centro nel bersaglio caleidoscopico delle questioni. Potrà più il veloce crollo della caramella da banco o la lenta agonia dei figli dell’Industria Pesante? Scialuppe a mare. Prima le donne e i bambini? Prima i più utili? Diamoci una risposta, mille, mille e una, in un adesso ormai solo ipotetico acceso e in tempi felici non lontani sempre tanto ambito dibattito dal barbiere;  di quelli nei quali nel breve spazio lasciato alle questioni di fondo smosse dalle prese di coscienza del sabato pomeriggio, tra una barba, un baffo e un taglio doppio risolvevamo in un pluff e in un  plaff problemi nazionali ed esteri, col filtro e senza, uno di quei dibattiti ai quali per molto tempo,  pare, non potremo più dar vita.  E intanto, lasciatemi l’impressione che se chiederemo che le nostre vite superino in importanza l’economica ragione, beh, vorrà dire che fin lì avremo avuto come guida la Cieca di Sorrento. E la domanda che mi faccio e che mi toglie la pace che invece cercherei anch’io, chiudendo, è “sì, ma allora tu che faresti?”.

 

il Corsivo di Lele Cerri – La 500 – Nuova Ciminiera del 28 nov. 2018

http://www.nuovaciminiera.it/2018/11/28/il-corsivo-di-lele-cerri-la-500/?fbclid=IwAR1yp5NV4DtnlkzXR0JDT4R_MeM_rjpIj5XkAlijJQayr1dIHsW4w8kvajY ?

Il Corsivo di LELE CERRI – La 500 – Ciminiera del 28 nov. 2018

Sgattaiolava, sgusciava via, sbucava da dietro l’angolo con lo sguardo curioso e un po’ embeh?… embeh!… della sua mascherina, la 500, novella “Topolino” come mandata da un alchimista-imbonitore,“raffreddata ad aria siori e siore!… raffreddata ad aria”, che avesse studiato nell’astuto mondo del Mago di Oz. Ci portava ovunque, per pianure e montagne, a scoprire le meraviglie del nostro Paese in rinascita, la 500, protetti nientepopodimenoché dalla sua cappottina di tela, dalla quale, aprendola con due click nella prima serie e, addirittura!, con uno solo nelle successive, si poteva sbucare a mezzo busto, in piedi sul sedile, a benedire tutt’intorno quell’immensa felicità che il mondo stava promettendoci. E ad affacciarci, da quella posizione, rasentando i marciapiedi delle “vasche” cittadine e delle passeggiate paesane, verso le scollature rotonde e fresche che l’esuberanza irrefrenabile di Brigitte Bardot aveva convogliato nel guardaroba delle nostre coetanee di neopatentati, di eterni gitanti destinazione “chissà che meraviglia!”.

In un Paese nel quale ancora regnava, come suggerimento utile e indicazione sovrana, la sintesi, la 500 ci informò, tutti, in pochissimi elementi, motore, freno, acceleratore e quel minimo indispensabile che li e ci conteneva, di che cosa fosse un’automobile. Al mio paese la presentarono di sabato pomeriggio, la 500, forse in uno strategico 27 giorno di paga, sulla piazza più bella sul lungomare, tra gran pavese di bandiere, con accanto un microfono per il conferenziere, il sindaco con la fascia; e venne il priore con i chierichetti a benedirla come gli avevo visto fare con le uova a Pasqua e gli animali sul sagrato non ricordo in che data ogni anno.

Prima auto di famiglie molto raramente obese, si trasformava in grande complice del primogenito e da chaperon dei suoi primi amori, visto che, come alcova, più che alloggio garantiva performances di contorsionismo. Ma garantiva camporelle, ovunque, portandoci via, via, via, caracollando, quel nostro primo E.T. solleticato, nel cielo del tettuccio, dalle cotonature odorose delle fanciulle allora in boccio.

Tra sogni generali di grandezza, le crebbe intorno, alla piccola 500, un mondo a misura, popolato di sfreccianti speedy gonzales che le somigliavano tanto, di radioline a transistor, di minicantanti che sgambettando sui loro ritmi di successo sembravano volersi muovere come lei che impavida affrontava le prime autostrade a due corsie infilando mbeh?… mbeh!… i primi caselli marziani con pensiline un po’ da capolinea lunare finalmente diversi da quella specie di case cantoniere che erano state fino allora le stazioni d’uscita.

Noi ragazzi toscani della costa, tra paghette e primi guadagnetti da studenti ingegnosi, con lo sconvolgente pieno di duemilacinquecento lire, la 500 ci portava dal mare a Firenze con giri in città e dintorni e ritorno, per un totale di circa una “dugentina” di chilometri, secondo la fresca lezione di Giotto. Ci riusciva perfino la guida “lunga”, sulla 500, nelle gite a due, il sedile tutto tirato indietro al limite degli scorrevoli oltre il fermo, le braccia allungate sul volante, le gambe distese sui pedali, la caviglia destra eternamente impegnata in un evitabilissimo puntatacco per un superfluo gioco di doppiette, i fianchi stretti fasciati dai primi pantaloni senza pinces comprati al mitico mercatino di Livorno, lo stesso che poco più tardi ci avrebbe fornito gli eskimo, a noi ragazzi toscani della costa. E le nottate d’inverno passate “a giro” al caldo di quella specie di phon sotto il cruscotto, vetri appannati dalla vitalità della folla di noi cinque occupanti, spia della benzina eternamente accesa fino a bruciare una sera la lampadina, e le tintarelle di luna doppiate a squarciagola mentre venivano fuori dai mangiadischi a pile fatti a tostapane, prima, e poi gli yellow submarine, le satisfation, le whiter shade of pale che venivano fuori dai primi mangianastri, a pile anche loro.

Sulla mia, la prima volta che ci salì, Mina cercò inutilmente sul cruscotto, tastandolo per un quarto d’ora senza che io capissi cosa stesse facendo, l’accendino, chiamandolo alla fine addirittura “lighter” per dirmi cosa stava cercando. Le porsi i fiammiferi, il portacenere c’era.

I miei cani ne fecero la loro canemobile, proprio come Batman aveva fatto con la sua auto, arrivando ad ospitarci, felici, un gabbiano ferito che per una settimana diventò anche lui un nostro compagno di viaggio. Un giorno lontano, la 500 mi portò ancora più lontano di quanto sia ormai lontano quel giorno; a Roma, a fare tutto quel che feci dopo.

Arrivò sull’orlo delle barricate con un coraggio da leone, quel topo quasi vicino al prepensionamento incalzato da altri modelli da rivoluzione. Ma la 500 era già, per noi, un numero molto importante, sappiamo adesso: le almeno 500 meravigliose cose che ognuno di noi, allora, era sicuro gli sarebbero successe nella vita.

 

 

Pier Paolo Pasolini 5 marzo 1922 – 2 novembre 1975

Ricordo la notizia, forse in radio forse alla televisione, quella tarda mattina di pioggia battente al risveglio a casa di non ricordo chi, a un piano alto di un caseggiato di Montesacro, in una Roma apparentemente o forse realmente sempre indifferente a tutto che quella mattina parve interamente diventata orfana o almeno così mi è sempre sembrato fino ai primi dubbi di adesso dovuti a quanto diventino inverosimili le sensazioni e i ricordi eccezionali quando la distanza nel tempo lavora a farli apparire non credibili e non certi per la loro assolutamente nitida precisione emozionale.
Molto moderatamente credo che Pasolini per un qualche motivo ancora sempre solo a lui tanto chiaro prima che a chiunque altro ci adotterebbe adesso che altrettanto evidentemente da così tanto tempo non siamo certamente suoi figli. Riposiamo pure in pace.

Il corsivo di Lele Cerri – Il peso della bellezza – Nuova Ciminiera 09 settembre 2018

http://www.nuovaciminiera.it/2018/09/16/il-corsivo-di-lele-cerri-il-peso-della-bellezza/

Lele Cerri

Mentre le modelle grissino Twiggy-ramoscello e Jean-gamberetto    portavano  su e giù per quei moli anglo-franco-mondiali della fashion beauté che erano le passerelle anni 60 i loro trentotto o quaranta chili di peso percorrendo quelle folgoranti ribalte leggere come piume, evanescenti e cariche di una grazia inconfutabile quanto impalpabile, la Luigia profondeva ogni suo impegno e ogni robusta forza che straripava dal suo fisico paramilitare d’assalto nell’ infilare i suoi 84, di chili, in minigonne che lei riusciva a ricavare da scampoli di tappezzerie e trovarobati d’abbigliamento a suo credere molto up-to-date coi quali di giorno in giorno superava se stessa e colui che in epoca lontana aveva ideato il broccato, annientandolo nella, a paragone, semplicità della sua invenzione, con i suoi celebri, temuti quanto attesi broccati-patchwork; con addosso i quali, lei affrontava combattiva la lotta che quotidianamente le compagini femminili del L.C. Giosué Carducci ingaggiavano per essere guardate dal più bello dell’Istituto: il Serapioni Gigli, media dell’otto, palazzo avito. Biondo. Che la guardava eccome, la Luigia,  inebetito da ogni suo apparire, dal suo puntuale portare il mento in alto entrando nel portone dopo aver  attraversato il cortile con lo stesso incedere con cui lei credeva che la Shrimpton o la Twiggy riguadagnassero le quinte dopo ogni loro vai su e giù con miniabiti geometrici, minigonne non ancora micro ma comunque piccoline davvero, mini-altro e mini-chissàcosa di petali di begonia di rasatello o cellophane tenuti su da un niente di stringhe che, a rischio di segargliele, si appoggiavano sulle spalle di quei due fuscelli come viperini capelli d’angelo; o forse, quelle quasi suggestioni di abitini e stendardini pelvici erano semplicemente sorretti dalla sola imbronciata felicità di quelle sottilissime fette di fanciulla che sembrava che, più che abiti, sfilassero, a tratti cercando di negarla con bronci infantili da vicina di casa di Lewis Carroll, la loro gioia di essere giovanissime ed eteree, e celeberrime, e mitiche. E ricchissime; tanto che, se in quell’epoca di figli e figlie dei fiori, avessero voluto pensare ad una loro nonna, il loro pensiero avrebbe dovuto e potuto volare, posandovisi leggero, fin su di un’orchidea rarissima e preziosa se non su una qualche Camelia-nobilis  del Sahara  o Gardenia-regale delle Ande o Asfodelo-tibetanus ancora tutti da scoprire, magari nel corso di  un qualche loro ieratico viaggio in una nuova Shangri-là.

Il degagé impegnatissimo del Serapioni Gigli  – giovane N.H. le cui giornate erano scandite da un puntuale rapsodico componimento di tweed e cachemere e alpaghe e english shoes con  un’ immancabile, appena percettibile “che” di stonato come una cravatta o un qualsiasi altro accessorio sapientemente fuori tono che l’eleganza edoardiana da lui mai un sol istante dimenticata raccomandava – costruiva, assieme all’ imperioso e autorevole ‘fai da te-fai di più’ della Luigia, l’autentico avvio, per via oftalmica, della nostra giornata.   Erano, il Serapioni Gigli e la Luigia, la più conclamata prova, e il più semplice e accessibile esempio in cui avremmo potuto sperare, delle idee di convivenza, di differenza di stili, di compatibilità degli opposti all’interno di una stessa struttura – la nostra classe – ; ed anche  di sinergia, visto quanto la  Luigia, nella determinazione di conquistare il Serapioni Gigli a forza di mini-salopettes e mini-falpalá in broccato e il Serapioni Gigli, con la sua volontà di ammaliare comunque anche la Luigia per non rinunciare nemmeno a una sola tacca sullo stipite-bloc notes delle sue conquiste, lavoravano molto produttivamente a garantirci quello che sarebbe poi diventato più in là lo sviluppo televisivo-internazional-popolar-familiare-stiro-cucino e ascolto dei concetti per i quali ognuno ha il diritto di amare, che anche i ricchi piangono, e di quanto si possa essere schiavi d’ amore, amati o amanti che siamo, schiavi cioè della pirotecnia del nostro amore per qualcuno, dell’amore di qualcuno per noi, o anche solo del nostro per noi stessi.

Mentre Londra, dopo aver ringhiato un bel po’ con i teddys e i mods, ruggiva sempre più forte in sottofondo alle raccomandazioni agli yé-yé di vivere bene e volersi meglio musicate e cantate dai lindi Beatles, la Luigia e il Serapioni Gigli sviolinavano l’una per l’altro e l’altro per sé la sinfonia dei loro guardaroba. Un ricordo che nella memoria riscalda le impronte ancora gelide di quella sfilza di spietate otto del mattino invernali  è quello delle loro apparizioni, l’uno a poca distanza dall’altra,  nell’atrio dell’Istituto: con il defilé con aria da ripasso di Seneca fumando una  Kent, dell’uno, sul marciapiede sul quale l’altra scendeva dalla macchina del fratello deputato a salvaguardare la sua totale, certissima, indubitabile integrità da eventuali disperate imboscate di chi non avesse alla fine più saputo resistere a tutta quella grazia di Dio avviluppata in quella marmellata di farfalle o soppressa  di bandiere internazionali, di quel frullato di campionari tessili ed eclettismo architettonico che erano le sue mises. Lanterna magica,  caleidoscopio, enciclopedia di colori e linee caduta nel pentolone della ribollita.

Il lampo dello psichedelico che in quegli anni illuminava il mondo era niente di fronte a quell’aurora boreale che erano i composé optical-rococò della Luigia, organizzati come un disegno di Hescher, che secondo il tuo umore e disponibilità del momento ti portavano sicuramente da qualche parte senza che tu potessi più essere in grado per il resto della tua vita di sapere dove e come c’eri arrivato. In quegli anni con le generazionali piantagioni di additivi vegetali ancora acerbi e di laboratori di chimica   underground ancora  freschi di calce, noi, pochi libri incerottati in una cinghia di gomma, ogni mattina eravamo automaticamente generosamente addizionati dall’ offerta continua della Luigia-Production, etonnante, stordente, sorprendente e insieme quotidianamente garantita, comoda e servita lì come un toboga imburrato come una fetta di pane sul quale scivolare, l’una e l’altra mattina, con continue varianti a seconda di  che rotta avesse deciso l’ impegno che la Luigia quel giorno aveva scelto, come sempre, di profondere per conquistare il Serapioni Gigli a botte di modeling; impegno  che, anche nelle giornate di stanca, faceva impallidire quello di Grimilde davanti allo specchio delle sue brame, delle sorellastre cattive di fronte all’ idea del ballo, di un Narciso inamovibile e impavido e imperturbabile di fronte al rischio reumatismi e della maga Enotea dalla bellezza  inarrivabile ed oltraggiosa.

In un’epoca in cui assieme ad hot pants a stelle e strisce “alti” come un ansaplasto, gonne ad effetto mantovana non più alte, dall’orlo alla cintura con fibbia da un chilo, di un cassetto di comodino con dentro una porzione di ragazza ultramoderna e ultralanciata verso una vita assolutamente intesa come interminabilmente da ragazza  ultramoderna e ultralanciata – in quel tempo in cui, nonostante l’avvio verso l’amore libero e bello e la famiglia dove capitava di farsela, si avviavano latentemente al trionfo i concetti di partenogenesi e non avrò altro figlio all’infuori di me – la perenne floridità della Luigia dirompeva straripando da quegli accenni d’abito coi quali la moda pretendeva d’essere omaggiata da ogni, ma proprio ogni, ragazza rinfrescandoci, in alcuni casi – col soffocare devoto di alcune dentro ogni che ci fosse di piccolo e sottotaglia –  il ricordo delle balie strabordanti dai corsetti conosciute nei racconti pieni di latte di campagna, umano e bovino, delle nonne e delle prozie.

Aver perso di vista la Luigia, negli anni immediatamente post scolari, mi fa sentire come derubato della testimonianza  diretta di un bel trancio di possibilità-esempio di evoluzione della specie. E più dell’ infinita lungimiranza della Twiggy che “cavalcata l’onda travolgente degli anni Sessanta” (M.C. Repubblica 28/09/02) “non ne conobbe l’infrangersi, la deriva”  prendendo in tempo “le distanze da un mondo al limite” – quando si dice il buonsenso, signora cara! – mi affascina la capacità della Luigia di essere silenziosamente andata, di sorpresa, oltre ogni apparentemente lampante scontato orizzonte già delineato da ingannevoli evidenze.

Un anno dopo il liceo, dopo cinque anni in cui l’aveva guardata come le Rolleiflex dell’epoca guardavano le auto pubblicitarie del Binaca fatte a forma di tubo di dentifricio al seguito del giro d’Italia attraversare Piazza Duomo a Milano e come in epoca successiva Boldi avrebbe guardato Moira Orfei sdraiata in turbante sotto un elefante, il Serapioni Gigli la Luigia la sposò. Da allora non ne sappiamo più niente, nessuno. Di tutta la classe nemmeno uno ne sa qualcosa. So soltanto che si trasferirono a New York. Ma quando ho letto di Twiggy su quel giornale che ne celebrava le qualità e la forza di mito intatto e di sopravvissuta al crollo di un’epoca titolando:  “Prima modella poi mito. Twiggy torna a sfilare a Roma”, ho avuto un brivido. Ho rivisto come un lampo scorrermi davanti agli occhi le mattine di cinque inverni, mi sono sentito in bocca di colpo il gusto di determinazione dell’ impegno di 84 chili di Luigia a camuffare da defilé hippy-surreal-camp-burino-peloponnesico la sua corte al Serapioni Gigli. E nell’animo una convinzione come una rivelazione: non era Twiggy a Roma. Era la Luigia.