17 settembre 2023
IO CAPITANO di Matteo Garrone
Ho visto IO CAPITANO.
Non si possono imputare difetti al film ma il difetto di non considerare che gli spettatori sono un’entità difettosa; e penso non si debba riservare loro un trattamento democratico.
Attori bravissimi molto evidentemente eccezionalmente diretti, film bello, bellino, ma insufficiente al tema; che è una colossale mastodontica smisurata tragedia umana e, anche per i tanti che ad applicare la pietà non ci pensano proprio, un, inevitabilmente in atto, centralissimo e grandissimo ineludibile fenomeno, processo epocale che, come molti altri in tutti i tempi, sta investendo e interessando antropologicamente, senza condizioni, il presente e il futuro dell’Europa intera e si diluirà, rimbalzando, più o meno riconosciuto tale, più o meno doloroso, nelle arterie e nei capillari del mondo. Tragedia e cataclisma antropologico, nel film sommersi e accarezzati in superficie, trattati a conforto delle anime che, per la sola fatica di essere stati seduti in sala nel buio illuminato dalla pellicola, dal film traggono un’assoluzione che neppure si sognavano minimamente di chiedere. Tragedia e cataclisma epocale aiutati a convertirsi in dibattiti di attivisti graniticamente non attivi o attivi altrove, o in uno dei momentanei salvifici arricchimenti colloquiali dei meeting pomeridiani di noi ottime persone comuni, vuoi ambosessi spazientiti in una qualche coda o nelle sale d’attesa CUP, vuoi signore nelle sale da tè di ogni qualche disperato bar che se le vede in gruppo a un tavolo davanti all’unico caffè di tutto il pomeriggio con cui sanciscono il diritto a quattro ore di ciance indisturbate. Passando loro accanto per l’inevitabile percorso cercando la toilette, le sentiremmo stupite, forse inorridite, c’è da giurarci spaventate, ma non commosse; e sicuramente vedremo esalare intorno, più che aleggiare, coscienze tranquillizzate dal loro impegnato sforzo critico in quel simposio distrattissimo quanto incancrenitamente unicamente allarmato per la propria sicurezza, nella prosa di una presa di coscienza del dramma e dello sconvolgimento in atto che, con probabilità preoccupante, non andrà mai oltre il che sarà mai del mio tinello e dei miei nipotini, i valori oh i miei i valori, sentirmi a casa mia, non è il modo non è il modo, o, per il loro volitivo nipotone: il mio paese è mio. Mi sbaglierò, spero di sbagliarmi, vorrei essermi sbagliato nell’impressione, a volte inevitabile, nel non trovare la consanguineità sperata tra temi e loro trattamento. Vorrei sbagliarmi e non sentire il nascere di paure che mi sbocciano non desiderate e non amate. Quando il cinema in certi casi è troppo cinema, quando nel progetto di non fare distinzione di destinatari sembra non avere l’esigenza di mettere a fuoco il controllo di ciò che possa rendere inutile, nel rischio alto di una sua temporaneità, una destinazione così concepita, di facile accesso, di cassetta dicono facilmente i chissenefreghisti. Quando il Cinema, o altro, anche soltanto involontariamente, per volonterosa democraticità di linguaggio serve chi non chiede di essere servito di portate che non rientrano nel suo menù mentale, che non riguardano i suoi gusti, i suoi appetiti, ilsuo metabolismo. E via, morto uno spettacolo, se ne fa un altro.
E della tragedia ancora non abbiamo capito nemmeno che cosa sia e dove stia il lumicino con scritto uscita. Mentre pretenderemmo che apparisse, per nostro diritto, chissà quale, il fotogramma con THE END, la sua.
Un caro saluto di buona domenica.