Mi hanno detto “non andare a vederlo!” perché qualcuno di cui si fidavano aveva detto loro che era un film insopportabilmente brutto. Ho disatteso il suggerimento e mi prendo la piena responsabilità di ciò che dico: l’ho trovato bello, a tratti bellissimo. Non foss’altro, si fa per dire, per il magnifico repertorio di evergreen che sciorina, sfruttato magnificamente scena per scena. Insomma, un film che è un bellissimo palindromo leggibile in un verso e nell’altro, dritto e rovescio senza che perda il minimo significato. Phoenix è di quella bravura che non si può più chiamare bravura perché sfocia inevitabilmente ed incontenibilmente nella grandezza. Lady Gaga fa la sua parte e appare conscia della fortuna di aver potuto rivisitare tutti i pezzi non come semplice rendition, stavolta, ma in un contesto in cui sono assolutamente funzionali. Si può parlare di emozione? Sì.
La si trova, l’emozione. Basta essere disponibili a farlo. Altrimenti è subito knock-out, non si entra, si rimane fuori, fuori dal film, fuori da un’occasione. Peggio per noi. La si trova nell’immediato utilizzo di molti linguaggi, tecnici e linguistici, alti, medi, bassi, lontani, vicini, nostri, loro, interiori, epidermici. Nell’utilizzo delle musiche. Un musical fatto con musiche non sue, con pezzi di trovarobato che nella loro lunga vita hanno accompagnato strappamenti di lacrime ai prosceni del vaudeville, tiptappamenti nei bianco e nero di epoche gloriose, nei burlesque transatlantici e nei più spietati strip tease dove il reggiseno volava via in levare a un bum di pedale sulla cassa, a Broadway come a Pocatello Idaho. Adesso, qui, scocca inatteso il dicotomico attimo di redenzione per l’anima di un carceriere improvvisamente provvisoriamente soave nella sua vocina amabilmente all american sound. Eccomi, sono un musical senza musiche mie. Sono una tragedia che ha il gusto sottile, sibilante, di certo inarrivabile a e per molti, di restare in commedia; e musical! senza nemmeno l’addentrarsi nella corposità del melodramma; niente sesso, siamo inglesi, anche se americani! anche mentre si fa sesso. È subito chiaro che le crisi di identità, la multidentitarietà, la fa da regina, perfettamente incoronata anche dalla scelta e dall’uso che si fa dei pezzi musicali. La forza sta nello stato di basso profilo che ha la qualità dell’understatement, che molto rappresenta, molto dice, molto lascia liberi di azzeccarla, capire la cosa giusta. I due, lui e lei, cantano, benissimo per il contesto, con voce e intonazione da smandrappati che mai l’idea di ritrovarsi in una sala d’incisione ha sfiorato. Lei è brava a fingere di non esserlo, essendolo moltissimo nel dare pienamente ai pezzi quel che il film vuole. Lui, bones&soul, ormai carcassa di bones, è un giuramento continuo di soul, fatto sempre un po’ più dappresso, un po’ per celia e un po’ per non morir, si sa, that’s entertainment! Che poi invece… Senza farla troppo palloccolosa, la tragedia innegabile e inevitabile come quella che toccava per destino agli eroi greci, qua è semplicemente il musical che Joker fa di sé, mantenendo il basso profilo del più generico trovarobato in cui il dramma sarebbe soltanto una terra di mezzo: i pezzi non vengono nemmeno dal più alto repertorio degli standard, ma sono dei leight motif, dei classici nell’esistenza di chiunque abbia trovato nel musical un circo d’elezione, nell’umiltà di un that’s entertainement che la dice tutta, chiara e forte, almeno agli uomini di buona volontà. Per gli altri, è valsa la pena di uscire per mangiarsi un barattolo di dimensioni californiane di pop-corn.