Ma pecché, Filume’?

 

Ma pecché???? Ma pecché??? Ma pecché, Filumè’?!  Pecché fare un film disordinatino autoconcessivino a tratti ritualmente inevitabilmente commovente come una creatura sgozzata davanti alla madre con perfino il trovarobato sovente anacronistico con una bella immagine d’ apertura assolutamente felliniana decifrabile come omaggio a Fellini autore insieme a Tullio Pinelli dell’antico soggetto non a caso mai utilizzato, còre còre còre ‘na cartulina ‘e Napule famme ‘nu shotte, guaglio’, come se si fosse caduti in una trappolona di un Fellini al quale dei destini dell’umanità importava quanto della felicità di un pruno?
Ma pecche? Ma pecché, Filumè’, piezz’e còre, ma pecché?!
Bellino, una favolina un po’ scricchiolante, felice come pretesto per ripresentare a tarallucci (pochi) e vino (poco pure) il diritto innegabile alla comprensione che hanno i ricorrenti tragici eterni fenomeni migratòri. Fazzolettini         e un saluto a Pollicino.

La zia gozzaniana del GLADIATORE II

Mah…

La zia un po’ gozzaniana di un mio amico, convinta che bastasse essere nata nel secolo precedente per poter vantare un lignaggio di pregio, lambiva con lo sguardo le giovani mogli che i nipoti avevano tesorizzato fuori dalla cerchia delle amicizie familiari e sussurrava al primo vicino più o meno discreto che le capitasse accanto: “certo… come vanno giù le famiglie…”. Certo come vanno giù i Gladiatori. E all’inizio fu… la bruttezza della scenografia, la mancanza di ritmo e la lentezza di movimenti nelle battaglie di massa che sembra abbiano tutti l’artrosi (fare brutta la battaglia terra>mare che è l’apertura del film è da Oscar all’”accontentàmoce”). Seguono; una mappa socio-parentelare che la vera anagrafe sembra sia sempre stata Tombolo e una costante disinvoltura generale per cui  può anche nascere il dubbio di aver intravisto ad un tratto, sullo sfondo, sotto un colonnato, il Feroce Saladino che sta a fa’ una pippa a Menenio Agrippa che je urla: “ahò, ma io so’ dder 500 a. C. !” . Más allá, a ogni piè sospinto salta all’occhio che la Rivarossi e la Dinky Toys avevano più rispetto della scala. Meno male che c’è Denzel Washington, che agita e ruota bellissimi broccati che nemmeno un toreador col capote de brega. E ha tutta l’aria furbina di aver usato ogni giorno della lavorazione del film come messa a punto di un qualche Shakespeare che, ci possiamo giurare, gli gira vorticosamente in testa di ammollarci abbastanza presto. Welcome. Countdown.

P. S. Speriamo non lo faccia con Scott

NON TI FIDAR di chi ti dice che è brutto

Mi hanno detto “non andare a vederlo!” perché qualcuno di cui si fidavano aveva detto loro che era un film insopportabilmente brutto. Ho disatteso il suggerimento e mi prendo la piena responsabilità di ciò che dico: l’ho trovato bello, a tratti bellissimo.                                                                                                                Non foss’altro, si fa per dire, per il magnifico repertorio di evergreen che sciorina, sfruttato magnificamente scena per scena. Insomma, un film che è un bellissimo palindromo leggibile in un verso e nell’altro, dritto e rovescio senza che perda il minimo significato. Phoenix è di quella bravura che non si può più chiamare bravura perché sfocia inevitabilmente ed incontenibilmente nella grandezza. Lady Gaga fa la sua parte e appare conscia della fortuna di aver potuto rivisitare tutti i pezzi non come semplice rendition, stavolta, ma in un contesto in cui sono assolutamente funzionali.  Si può parlare di emozione? Sì.

La si trova, l’emozione. Basta essere disponibili a farlo. Altrimenti è subito knock-out, non si entra, si rimane fuori, fuori dal film, fuori da un’occasione. Peggio per noi. La si trova nell’immediato utilizzo di molti linguaggi, tecnici e linguistici, alti, medi, bassi, lontani, vicini, nostri, loro, interiori, epidermici. Nell’utilizzo delle musiche. Un musical fatto con musiche non sue, con pezzi di trovarobato che nella loro lunga vita hanno accompagnato strappamenti di lacrime ai prosceni del vaudeville, tiptappamenti nei bianco e nero di epoche gloriose, nei burlesque transatlantici e nei più spietati strip tease dove il reggiseno volava via in levare a un bum di pedale sulla cassa, a Broadway come a Pocatello Idaho. Adesso, qui, scocca inatteso il dicotomico  attimo di redenzione per l’anima di un carceriere improvvisamente provvisoriamente soave nella sua vocina amabilmente all american sound. Eccomi, sono un musical senza musiche mie. Sono una tragedia che ha il gusto sottile, sibilante, di certo inarrivabile a e per molti, di restare in commedia; e musical! senza nemmeno l’addentrarsi nella corposità del melodramma; niente sesso, siamo inglesi, anche se americani! anche mentre si fa sesso. È subito chiaro che le crisi di identità, la multidentitarietà, la fa da regina, perfettamente incoronata anche dalla scelta e dall’uso che si fa dei pezzi musicali. La forza sta nello stato di basso profilo che ha la qualità dell’understatement, che molto rappresenta, molto dice, molto lascia liberi di azzeccarla, capire la cosa giusta. I due, lui e lei, cantano, benissimo per il contesto, con voce e intonazione da smandrappati che mai l’idea di ritrovarsi in una sala d’incisione ha sfiorato. Lei è brava a fingere di non esserlo, essendolo moltissimo nel dare pienamente ai pezzi quel che il film vuole. Lui, bones&soul, ormai carcassa di bones, è un giuramento continuo di soul, fatto sempre un po’ più dappresso, un po’ per celia e un po’ per non morir, si sa, that’s entertainment!  Che poi invece… Senza farla troppo palloccolosa, la tragedia innegabile e inevitabile come quella che toccava per destino agli eroi greci, qua è semplicemente il musical che Joker fa di sé, mantenendo il basso profilo del più generico trovarobato in cui il dramma sarebbe soltanto una terra di mezzo: i pezzi non vengono nemmeno dal più alto repertorio degli standard, ma sono dei leight motif, dei classici nell’esistenza di chiunque abbia trovato nel musical un circo d’elezione, nell’umiltà di un that’s entertainement che la dice tutta, chiara e forte, almeno agli uomini di buona volontà. Per gli altri, è valsa la pena di uscire per mangiarsi un barattolo di dimensioni californiane di pop-corn.

L’INSOPPORTABILE PULSARE DELLA VENA DEL BATTUTISMO

 

L’INSOPPORTABILE PULSARE DELLA VENA DEL BATTUTISMO.

Comicità e ironia, e le loro caviglie sempre a rischio di sprofondamento nella pateticità del battutismo. E’ questa la palude della nuova comicità, le sabbie mobili in cui si tende gaiamente a sprofondare addirittura tuffandocisi di testa. ‘Ah, annammo bbène’ diceva romanamente la milanesissima Franca Valeri, più snob delle sue signorine snob, riservando per sé lo snobismo, vero, che vive spalla a spalla, a sottilissima linea di confine, con alcune allergie dell’anima, reso plausibile e legittimo e perfino estremamente elegante, anzi raffinato, dal corredo di acume, intuito, prontezza nell’ordinazione, “una menta!”, che rendono immediatamente percepibile la persona intelligente per immediatezza, misura, al di fuori di teorie e sbrodolate intorno ai massimi sistemi, la persona per natura affrancata dalla vitale profondamente volgare necessità che si sappia che è una vera signora o, oltre ogni border line, un intellettuale.

Nessun volo pindarico, solamente una sostituzione di culto, nel passaggio agli adesso diffusissimi, ingannevolmente immediati ma innegabilmente fruiti, goduti,  spassionatamente e appassionatamente accolti e replicati  “aoh a me me rode il culo”,  prologo  sostanzialmente  “e co’ questo ce lo sapete, se tratta de ride, ah no?…” a un  “e mo’ sì che ha da veni’ er bello”, sottopensiero che sorregge la vis comica del performer di successo. Ragazzi, ragazze, donne, uomini, di borgata o di quartiere, ruspanti o freschi di laurea, tutti nuovi donatori di felicità non rosi dal tarlato timore dell’effimero,  umani silos di adrenalina a go-go, innamorati pazzi dello stupore di sé e della propria sedicente simpatia. E si ride, si ride, si ride, di non si sa cosa ma si ride. Si ride non di comicità, men che meno della sconosciuta ironia che a pochissimi appartiene e alla quale ancor meno pochissimi sono eletti dalla benevolenza di madre natura. Si ride con i disinvolti del baretto, che entrando già ridono di gola e di ganascia fieri di un loro “aoh, famme ‘n po’ ‘n caffè..”, si ride con i battutari  e battutare che nelle godutine per l’eruzione continua della propria divertentezza,  con orgoglio si sistemano ostentatamente gli attributi sotto cintura o si sistemano la quinta maggiorata con un bel push-up manuale.  Battutari, dilaganti, onnipresenti, in fila alla posta, fuori dalle stanzine di un catasto, che in attesa di arrivare in TV e in teatro, e ci arriveranno, popolano e spopolano da barbieri e parrucchieri, dove scombussolano  gli equilibri emotivi di barbettoni, riccioluti, doppitagliati o glabri totali in attesa del loro turno, mettono a rischio la fermezza della mano di qualche barbiere che si scompiscia, sbaruffano  con le loro raffiche di irresistibilità i bigodini di signore che ridono ridono ridono, ridono di tutto quello che poco dopo, uscita la divertente divertita disinvolta disinibita “che ai peli sulla lingua s’è fatta ‘a ceretta”, censureranno. Ma si ride, oh sì, quanto si ride. Si ride e si va volentieri a ridere “annanno affanculo”,  “vedennoce anna’ ” tutta l’ironia sbruffona dei “che d’è?”, dei  “che vor di’?”. Si ride come si potrebbe ridere se la tendina del ripostiglio rimanesse impigliata nella cassetta di frutta vuota che “la butto via domani”, come per la scoperta che le cipolle in frigo sono marcite, come per la paura che se non ridi alle raffiche di “ahò” “embè” “anvedi”,”o icchè”, “‘o ‘i cche c’è?…”, “e allora?…” del battutaro del bar all’angolo, quello ti ammolla un cazzottone nei denti o ti dice “la maiala di tu’ ma’ “. Ma si ride, si ride. “Aoh, che te ridi? …mamma ha fatto i gnocchi?”, “marianna maiala, o’ i cche tu c’hai nelle mutande? Un baobab?”. Oh, cribbio! Non ci avevo pensato. E se fosse tutta colpa di Mae West e delle pistole che vedeva in tasca al cow boy di turno? No, di quello non ride più nessuno. O, se ride, è gay? Anche il cow boy? Danni del sovraffollamento.

INEDITI: STORIA, AMORE E LA MELLIFLUA ALA DELLA NECROFILIA

INEDITI: STORIA, AMORE E LA MELLIFLUA ALA DELLA NECROFILIA

Oggi, sui social hanno pubblicato un brano molto modesto di Billie Holiday, con interventi di molti che ci hanno incondizionatamente, appassionatamente ed incautamente, sbrodolato sopra. È un brano meritatamente poco noto inevitabilmente destinato ad essere relegato eternamente nei colori di cose risapute, già meglio documentate, nei sapori, negli odori dolciastri degli anni trenta, ciprie che sprigionavano miele e tuberosa, finestre tirate su a metà, una provvidenziale mezza penombra da sotto le cortine mezzo abbassate, veli di tendine immobili, letti sgualciti suffragati dal sospiro di un ventilatore svogliato, mutandine e mezze sottovesti di sete scadenti incollate di spietato sudore in un insieme di apparente irrinunciabilità da cui tutte quelle bellezze sdraiate avrebbero voluto fuggire.

L’ostinazione a pubblicare takes scartati dall’interprete al tempo della registrazione ha tutto il sapore della necrofilia, leggermente putrido, marcio di pus e di un amore che bacia in bocca il morto. L’alibi più solido è che si sta scrivendo storia documentata. D’accordo.  Ma non suffragate dall’ultra-secolarità del tema,  rimangono spesso operazioni di aspetto terribile da cui i necrofili più ghiotti e affamati si riscattano con professioni d’amore e volontà di rinunciare alla loro vita reale attuale pur di ritrovarsi là, allora, dentro la gabbia del cantante, a penetrare sospinti dai suoi fiati nelle griglie del microfono, finire aggrappati come ad un salvifico spuntone di roccia al chiodo della testina a impiastrarsi nel solco sulla cera insieme ad ogni nota. Il cantante è in mutande, in sottoveste, inginocchiato in cucina ad asciugare il caffè sul pavimento, attento a non bruciarsi con la caffettiera bollente che gli era scivolata di mano. Beccato. Il re è nudo. La siepe del giardino è crivellata di curiosità, il portinaio ne sa una più del diavolo, il bidone dell’immondizia racconta molto più di quanto sperassimo di riuscire a sapere. Resta solo il rimpianto di non essere riusciti a far diventare la parete del bagno una vetrina della quinta strada, ma per oggi sfoderiamo tutta la nostra armoniosa capacità di accontentarci, e il disco con il take all’epoca scartato può uscire.

PREVIOUSLY UNRELEASED: HISTORY, LOVE AND THE MELLIFLUE WING OF NECROPHILIA

Today, on social media they published a very modest song by Billie Holiday, with contributions from many who unconditionally, passionately and recklessly have poured over it. It is a deservedly little-known piece, inevitably destined to be relegated eternally to the colours of things already known and already better documented, flavours, sweetish smells of the 1930s, face-powders that released honey and tuberose, windows half-drawn up, a providential half-light from under half-drawn curtains, veils of curtains motionless, crumpled beds supported by the sigh of a lazy fan, panties and half slips of cheap silk glued with implacable merciless sweat in a set of apparent indispensability from which all those reclining beauties would have liked to escape.The obstinacy in publishing takes discarded by the performer at the time of recording has all the flavor of necrophilia, slightly putrid, rotten with pus and of a love that kisses the dead on the mouth. But not helped by the ultra-secularity of the theme, they remain operations of a terrible and fetishistic aspect from which the greediest and most hungry necrophiliacs redeem themselves with professions of love and willingness to give up their current real life in order to find themselves there, then, inside the singer’s cage, to penetrate, driven by his breaths, into the grills of the microphone, end up clinging as if to a saving rock spike to the nail of the head and getting smeared and sticking in the groove on the wax together with every note. The singer is in his underwear, in his slip, kneeling in the kitchen drying the coffee on the floor, careful not to burn himself on the hot coffee pot that had slipped from his hand. Gotcha. The king is naked. The garden hedge is riddled with curiosities, the doorman knows more than the devil, the rubbish bin tells much more than we hoped to know. All that remains is the regret of not having managed to turn the bathroom wall into a fifth street showcase, but for today we show off all our harmonious ability to be satisfied, and the record with the unpublished take at the time can now be released.

Un razzista è un pezzo difettoso nella catena umana

Amerò sempre Holiday. E sosterrò sempre le cause umane e i diritti civili e lotterò per la interminabile tragedia dei diritti umani calpestati ma, nonostante Strange Fruit spieghi con immediata chiarezza una imperdonabile vergogna perpetua, è una canzone che non mi è mai piaciuta. Ed è purtroppo un autentico delitto che sia ancora necessaria per denunciare l’inconcepibile vergognosa  forma mentale di chiunque sia sostanzialmente ignorante e grettamente primitivo da essere razzista.  Un razzista è un pezzo difettoso nella catena umana.

I will always love Holiday. And I will always support human causes and civil rights and I’ll fight for the interminable tragedy of trampled human rights but although Strange Fruit explains with immediate clarity an unforgivable perpetual shame, it is a song that I have never liked. And it is unfortunately a real crime that it is still necessary to denounce the inconceivable shameful mental form of anyone who is substantially ignorant and narrowly primitive enough to be racist.  A racist is a defective piece in the human chain.

© Copyright lelecerri.com

Un’operazione antipatica

O del mistero della simpatia e dell’immediatezza dell’antipatia.

 

Marcello Mastroianni era naturalmente simpatico. Un dono. Sua figlia Chiara no.  Un inutile inchaplinarsi, un inutile lamentoso “mi manca il mio babbo”, l’invadenza da generica in preda a narcisismo protagonistico in un film che nulla dice se non “ohiohi ohiohi”. Un film che espone la sua lamentosa problematica guida, che per uscire non poteva trovare un peggior momento di questa stagione,  sbocciare di tanti nuovi orfani di continue vittime sul lavoro. Snobistico smisurato non cameo-guerra e pace della famosa mamma della protagonista. Sì, è lei, quella del tailleur.

BILLIE HOLIDAY vs. BILLIE HOLIDAY

Gennaio 1949 – La stampa scriveva: “Fermata per possesso di oppio, Billie Holiday si presenta alla Corte in visone selvaggio da 7.000 dollari e tailleur con colletto nero”.

CHE FOSSE tossica mi fa incazzare come poche altre cose al mondo. Non riesco a vederla in nessun altro modo: la trovo una dolorosissima enorme tragica cazzata. Ma che la lasciassero anche un po’ in pace! Lei era uno spirito libero, si potrebbe anche dire primitivo. E quella stradannata vita era la sua. Alla fine dei conti, tutto il male che può aver sempre fatto, l’ha sempre merdosamente fatto a sé stessa. Lei era molto più innocente di tante autorevoli figure officiali che il male lo spargevano in giro. In questa foto, vista la circostanza, è molto bella così sdegnosa ed altera. Certo, lei gli uomini se li cercava tra i peggiori. Il dato certo e incancellabile è che a rappresentarla, in qualsiasi modo possa essersi rappresentata, a rappresentarla potrà esserci soltanto, e sempre ci sarà, Billie Holiday.

THE FACT THAT SHE WAS a drugs addict pisses me off like a few other things in the world. I can’t think of it any other way, I find it a huge tragic interminable bullshit, I find it a very painful bullshit. But I mean… they would have left her alone too! She was a free spirit, we could say maybe quite primitive, and that damned life was hers. In conclusion, all the harm she may have done she has always shittily done to herself. She was much more innocent than many authoritative official figures. In this photo, given the circumstance, she is very beautiful, disdainful and haughty. However, the fact remains that she really looked for men at their worst. The final certainty is that, in whatever way she may have represented herself, the only one who can represent her essence now and ever will be Billie Holiday.   

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CATTIVERIE CON LINGUACCE il film della Signora Sharrock

Arieccoce. Cenerentola, la storia, stavolta minuscola, corre al pozzo, porta acqua perché si lavino bene bene i pavimenti documentali su cui poggia e vengano ben benino lucidati per farcela danzare sopra nei suoi nuovi panni di vicenda, non più in abito da sera né in celluloide, aggIornata nei fatti quanto nella sua contemporaneità digitale, quasi fantasy, di certo politically correct, per blu, e su una pretestuale vicenda di Cronaca non troppo minuscola ma maiuscolizzata, viene sbattuta in cronaca pagina pagina, pagina, pagina. E come in tutte le cenerentolate a seguire la prima incocchiata dalla Signora BidibiBodibi Bu, il cocchio di zucca ha raggiunto ormai l’evoluzione dell’hybrid, un colpo al cerchio, un altro al tino, l’importante è che la storia che si vuole raccontare calzi al tempo in cui viene goduta, sia funzionale alle regole dello spedire e ricevere un messaggio, partendo in qualche modo già datata, perché legata ai e dai dettagli aggiunti, alle specifiche considerazioni e ambientazioni sociali antropologiche civili politiche galateistiche del nuovo momento in cui la si racconta.

Inglesi attori bravissimi nati dalla schiuma di una tradizione attoriale dalla quale sono emerse e continuano ad emergere tutte quelle primavere un po’ stantie di classicità e la cui genialità non ha mai portato e tuttora non porta un alito di freschezza ma agevola un importante profondo respiro.

La scelta del caso è la macchietta, il macchiettismo che a volte e a momenti, in ogni altro paese, avvolge in una nuvola di cipria anche la farsa e che nel caso specifico può essere rinaturato immediatamente, tradizionalmente, con un bel “ma come? è elisabettiano”. Chiaro, chiarissimo, che se vai a vedere un film aspettandoti una cosa, tu spettatore e il film partite in un rapporto penalizzato da un colpevolissimo preconcetto. Superato l’impatto violento, violentissimo, senza scampo né perdono, con un macchiettismo inatteso, a poco a poco si entra, attraverso un passaggio intestino costantemente lubrificato dalla competenza degli attori, in un vero dramma, nel dramma assoluto, nel dramma intriso e portatore di lecito, legittimo, encomiabile femminismo, che nullo scampo lascia, al quale nessuno resiste: nel dramma dell’inGiustizia.

E qui, e qui, e qui, cara signora, “per favore, potrebbe passarmi quel gomitolo piccolo?”, ci lasciamo avvolgere da un filo di Arianna che infallibilmente ci condurrà nientepopodimeno che ad una non del tutto scontata via d’uscita in un percorso in cui non tutto è garantito dalla non matematicamente calcolabile applicazione della buona volontà acciocché il vero trionfi nell’assicurare, e riconoscere, a ciascuno ciò che, nel bene e nel male, gli spetti.

E questo avviene, oh se avviene! In un Fucking Loud Center in cui si affollano i desideri espressivi e comunicativi di un’altissima percentuale di noi umani di schiatta social, è tutto un dipanare, e un riavvolgere; il gomitolo si sbroglia e si rimbroglia in continuazione nella giusta suspence che un prodotto inglese assicura, garantisce, offre sempre, anche nella semplice attesa di risposta alla , chissà se innocente, domanda “per favore, che ore sono?”.

Tutti contenti, infine! Da Giorgio III e Sophia Charlotte a Emmeline Pankhurst, al maniscalco, alle spose che non ebbero mai una torta di nozze, ai figli dell’Impero che Impero non stava più per essere, all’insopportabile genitore sopportato che con i suoi pennellini e la scritta sul carrettino del droghiere si era fatto una gran bella casona borghese.  A meno che non l’avesse ereditata da chissà quale avo possidente.

Cattiverie a domicilio – di Thea Sharrock.  Nei migliori cinema. O in quelli in cui lo trovate.

Gloria al pretesto. E Gloria sia!

24 aprile 2024

La strada del riscatto è costellata di millenni cui rimediare.

La Storia giocando a campana.

 

Ormai si ricava una professione femminista anche dallo smaltimento della rapa neozelandese.  L’isola di Pasqua sarà in futuro la culla storica della rumba e Abbe Lane una sacerdotessa Inca, pronipote della rapper Rapa Nui, ava della Cantatrice Calva, che nel  1475 introdusse l’uso della marimba nelle formazioni sinfoniche della Colombia precolombiana. E non sarà assolutamente difficile che la parabola-metafora-playstation-newhistorical riesca a passare come un accertato evento storico per una ormai larghissima fascia di consumatori della schiera ‘viva il cinema abbasso la storia’ ampiamente foraggiati da Ridley Scott, tra i molti altri; consumatori comodamente disabituati ad ogni riferimento e realtà autenticamente storici o almeno prepotentemente storicizzati nei secoli. Ciò tenendo tuttavia conto di che la domanda che sovente si è levata, qua e là, de vez en cuando, un po’ flamencorock un po’ mazurka, dal Manzanarre al Reno, è ‘Ma la Storia che Storia è?’. Le Goff, morto così giovane, considerando le durate minime che abbiamo ormai raggiunto e che, per poi trascurarci ad ogni sopravvivenza impostaci da non si sa quale etica assolutamente contro-aziendale,  per poi un giorno trattarci come pacchi in qualche ospizio, vogliono portare alla durata di una quasi eternità, farà ancora in tempo a rivoltarsi nella tomba, se non è stato cremato? O vedrà scorrere, stavolta nello splendore del digitale formato 16:9, minuto per minuto, come nella moviola di un montatore di bibbie playstation newfantasy, le tribolazioni degli storici in crisi che girano chiese e mercati ubriacandosi per dimenticare umiliazioni e patimenti a causa di nobili adultere che hanno infuocato le loro epoche d’oro sottratte a sane formazioni who’s who e turbato i loro successivi sogni influenzali. Glorious! Un copione presto a venire. Una storia senza uguali. Perché è ancora tutta da inventare. Perché deve ancora accadere. Che sgorgherà, di antichissima  contemporaneità, hic et nunc, per qualcuno dei quasi tutti per i quali la storia nasce esclusivamente con e dal giorno della propria nascita, tutto il resto non è mai esistito. Prima: A) avverbio di improbabliità B) Sinonimo di inesistenza. L’hic et nunc, incontestabile attestato storico tanto comunemente e sentitamente avvertito come ricapitolazione dell’eternità che si può contestualizzare, rappresentare, raccontare, come più ci piace, mentre più si giace, anzi, se tra una cotoletta e l’altra e un passami il sale eccoti l’olio decidiamo di crederci, mentre tanti giacciono sotto macerie televisive. Ma sarà vero?  Per blu,  je m’en fou.  Viva la foto perfetta! Gloria al pretesto. E Gloria sia!