BILLIE HOLIDAY RECITAL Grabados de 1952 y 1954 publicados en el album RECITAL en 1956

                                                                                                 

Hola querido amigo Jay. ¿Has oído lo mucho que Peterson, aunque la respeta, la empuja a cantar más de lo que lo hacían otros pianistas?… Aquí en RECITAL Holiday tiene que ganarse el pan… con los músicos, tiene que hacer su trabajo. y eso es lo bueno de estas sesiones. Dicen que Holiday se quejó un poquito de que Peterson había tocado demasiado. Cierto. Pero, aparte la singularidad de Holiday que más que una cantante era una galaxia aparte que trascendía un papel mientras se rodeaba de músicos a los que le gustaba sentirse parte…la de Peterson fue la forma en que la hizo volver a trabajar su trabajo. En ese album RECITAL, Holiday canta sobre su pedestal intacto de genio extradimensional, pero además, haciendo también el trabajo de músico entre músicos como músicos. Aquí realmente vuelve a regalarnos la carnalidad carnal de su vocalidad, de su presencia hecha de una esencia excepcional que no tiene nada de material que sin embargo aquí parece querer hacerse materia. Aquí en RECITAL, además de su extradimensional esencia se hace carne; lo hace con el trabajo, aquí infinitamente tangible, de músico que canta. Suprema, cantando con fuerza y equilibrio, sin arrogancia, se podría decir con una humildad que lo hace aún más gigantesca, como si de verdad quisiera acercarse a nosotros, pobres humanos, ella, entidad superior que generosamente se preocupa de engañarnos de estar a nuestro alcance. Lo hace en RECITAL trabajando humanamente como todos los humanos como todos los músicos. Y la experiencia de encontrar, en un día especial, a una diosa humilde es inigualable como inimaginable, una verdadera embriaguez.

Holiday no podía permanecer en la historia como la cantante que había terminado imitando a sí misma con músicos detrás de ella haciéndole compañía. Decir que Holiday es una cantante es limitarla. Pero cuando también canta un poco más, bueno, es mejor; también porque incluso cantando más su voz mantiene totalmente su sonoridad poética única en el mundo.                                    © Copyright lelecerri

Allo specchio il nostro selfie

Caro Foffo… tu dici che dopo la fine, forse, nuove creature usciranno dall’acqua e metteranno braccia e gambe, cominceranno a camminare e a creare qualcosa di sano da questa rovina che l’uomo si è creata da solo? … È tanto che ci si guarda allo specchio e in preda ai furori dell’ autoreferenzialità non ci accorgiamo nemmeno che in questo interminabile selfie che da sempre ci facciamo, desesparecidos che siamo dalla faccia della decenza, pur di avere ruolo e battuta, smanacciando, da ordinari ventriloqui scalmanati, ci stiamo gridando “crucifige! crucifige”… per follia protagonista, stiamo perfino riuscendo a rubare il posto a Cristo sulla croce. E miseri… senza ormai pietà nemmeno per noi stessi, se riusciremo davvero in questo scellerato fai da te che é la nostra autodistruzione, virtuali come ormai siamo nei nostri raggi d’azione, non sanguineremo neanche. Cotenne. Buona Pasqua. La torta di pane. Da piccolo non mi piaceva. Ora mi conforta la sola idea.

Billie Holiday non forma ma essenza / Billie Holiday not shape but essence

thanks for all pictures from : http://www.billieholidaysongs.com/recording-sessions/1958-sessions/

Si parla spesso della voce più o meno in forma di Billie Holiday… Parlando di lei, non significa gran che. La sua voce contiene sempre tutto ciò che l’autentica profondità contiene. È estranea ad ogni classificabile forma o stato e il suo suono è sempre talmente magnifico che, sebbene lei stessa desiderasse così fortemente essere e sentirsi considerata una cantante popolare con tanto di arrangiamento per violini, parlare di lei semplicemente come una cantante è limitare la sua grandezza.

Holiday non appartiene a una dimensione conosciuta. È una galassia a sé.

Ciò che è eccezionale è che nella sua indefinibile eccezionalità, ha rappresentato e rappresenta e con forza esala, tragicamente e candidamente, i colori dell’anima nel modo in cui ognuno che l’ascolta vorrebbe riconoscere dipinta la propria.

 

You all often talk about voice bad shape… That doesn’t mean so much talking about Holiday. Her voice always contains all that the real deepness contains,  it’s alien to any classifiable form/shape and its sound is always so magnificent that, although she herself strongly desired to be a popular singer and to sing with violins, to speak of her simply as a singer is to limit her greatness.

She doesn’t belong to a known dimension. She is a galaxy apart.

What is exceptional is that in her indefinable exceptionality; she represented  and strongly exaled, tragically and childishly, the colours of the soul in the way everyone would  like to see painted their own.

Copyright lelecerri.com

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IO CAPITANO di Matteo Garrone

17 settembre 2023

 

IO CAPITANO di Matteo Garrone

 

 

Ho visto IO CAPITANO.

Non si possono imputare difetti al film ma il difetto di non considerare che gli spettatori sono un’entità difettosa; e penso non si debba riservare loro un trattamento democratico.

Attori bravissimi molto evidentemente eccezionalmente diretti, film bello, bellino, ma insufficiente al tema; che è una colossale mastodontica smisurata  tragedia umana e, anche per i tanti che ad applicare la pietà non ci pensano proprio, un, inevitabilmente in atto, centralissimo e grandissimo ineludibile fenomeno, processo epocale che, come molti altri in tutti i tempi, sta investendo e interessando antropologicamente, senza  condizioni, il presente e il futuro dell’Europa intera e si diluirà, rimbalzando, più o meno riconosciuto tale, più o meno doloroso, nelle arterie e nei capillari del mondo. Tragedia e cataclisma antropologico, nel film sommersi e accarezzati in superficie,  trattati a conforto delle anime che, per la sola fatica di essere stati seduti in sala nel buio illuminato dalla pellicola, dal film traggono un’assoluzione che neppure si sognavano minimamente di chiedere. Tragedia e cataclisma epocale aiutati a convertirsi in dibattiti di attivisti graniticamente non attivi o attivi altrove, o in uno dei momentanei salvifici arricchimenti colloquiali dei meeting pomeridiani di noi ottime persone comuni, vuoi ambosessi spazientiti in una qualche coda o nelle sale d’attesa CUP, vuoi signore nelle sale da tè di ogni qualche disperato bar che se le vede in gruppo a un tavolo davanti all’unico caffè di tutto il pomeriggio con cui sanciscono il diritto a quattro ore di ciance indisturbate. Passando loro accanto per l’inevitabile percorso cercando la toilette, le sentiremmo stupite, forse inorridite, c’è da giurarci spaventate, ma non commosse; e sicuramente vedremo esalare intorno, più che aleggiare,   coscienze tranquillizzate dal loro impegnato sforzo critico in quel simposio distrattissimo quanto incancrenitamente unicamente allarmato per la propria sicurezza, nella prosa di una presa di coscienza del dramma e dello sconvolgimento in atto che, con probabilità preoccupante, non andrà mai oltre il che sarà mai del mio tinello e dei miei nipotini, i valori oh i miei i valori, sentirmi a casa mia, non è il modo non è il modo, o, per il loro volitivo nipotone: il mio paese è mio.                                                   Mi sbaglierò, spero di sbagliarmi, vorrei essermi sbagliato nell’impressione, a volte inevitabile, nel non trovare la consanguineità sperata tra temi e loro trattamento. Vorrei sbagliarmi e non sentire il nascere di paure che mi sbocciano non desiderate e non amate. Quando il cinema in certi casi è troppo cinema, quando nel progetto di non fare distinzione di destinatari sembra non avere l’esigenza di mettere a fuoco il controllo di ciò che possa rendere inutile, nel rischio alto di una sua temporaneità, una destinazione così concepita, di facile accesso, di cassetta dicono facilmente i chissenefreghisti. Quando il Cinema, o altro, anche soltanto involontariamente, per volonterosa democraticità di linguaggio serve chi non chiede di essere servito di portate che non rientrano nel suo menù mentale, che non riguardano i suoi gusti, i suoi appetiti, ilsuo metabolismo. E via, morto uno spettacolo, se ne fa un altro.

E della tragedia ancora non abbiamo capito nemmeno che cosa sia e dove stia il lumicino con scritto uscita. Mentre pretenderemmo che apparisse, per nostro diritto, chissà quale,  il fotogramma con THE END, la sua.

Un caro saluto di buona domenica.

 

LA QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO di Pupi Avati

LA QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO e di PUPI AVATI

Violento. Di una violenza  sentimentale forte e sfrenata come adesso si spiega bene con pazzesca. Ti pesca dentro spietatamente. Non ti viene nemmeno di pensare alla fotografia o ai piani, che è e sono semplicemente indubitabilmente quelli giusti. Potrebbe essere su pellicola a losanghe o a pois non importerebbe.   Il film è quello che tratta e come lo tratta. Questo per i primi 40-45 minuti.

Poi l’ho sentito diventare fiction, con qualche lampo di ritorno allo stato di grazia che punteggia qua e là gli ultimi 15 minuti.

Ma anche un maestro di case dalle finestre che ridono, di gite scolastiche, di cuori grandi di ragazze, che pure arrivano eccome, di aliti di gelsomino del non colore dell’aria di Macondo può portarsi nel suo, di cuore, anche se ormai libero, l’ingombro, il fastidio di condizionamenti-assalti non tanto sonnecchianti inflitti dalle raffiche continue di qualcosa molto simile a nuove estetiche, dalla mutazione della comunicazione variata nell’antropologia dinamica dei social, dall’universo dei media, dalle nuove leggi della realizzabilità.

Lodo Guenzi, su cui è infissa la punta del compasso intorno alla quale ruota il cerchio galattico dei sentimenti, caratteri e loro motivi, mi è parso stranamente stereotipatino proprio nei momenti davanti alla sua arma d’origine che è il microfono, mentre, mi sento di dire, perfettamente misurato in ogni altra zona della parte sempre difficilissima e sempre rischiosissima del nevrotico.

Fenech, in una posizione disagevole come quella di Swanson in Sunset boulevard, manca, come tutti al mondo, dei geni della Swanson in quel capolavoro; ma ho trovato  in quello che semina in tutte le sue scene la poesia della causa strenuamente sposata, ovvero il film e il proprio ruolo che, come augurabile ma per nulla matematico, le ho sentito declinare sentitamente con delicatezza.

Molto carino, bello, mi è arrivato diritto al cuore il pacchetto dei titoli di testa con immagini d’epoca e pianoforte all’uso del garbo di Allen b&w. Poi Cammariere-Gregoretti e Avati non resistono alla necessità di archi ad arcobaleno. Ma l’impressione è stata che siano serviti loro per dichiarare subito onestamente le intenzioni a venire. Per il resto della musica, mi è arrivato un tormentino dello stesso giro armonico per ogni proposta. Ma dato il cachet non tanto caché del regista e rimanendo dello stesso animo ben disposto offerto, fin dall’entrata, da spettatore che assiste alla creazione di un mondo,  mi butto prudentemente a credere sia scelta estetica funzionale e necessaria. Sì, ci chiamano Mimì.

Il film, nei fili anche interni del gomitolo non aggrovigliato, e illuminato fin ben dentro che è, somiglia un po’ a te, un po’ a me, un po’ a noi, un po’ al nostro migliore amico, un po’ al peggiore collega, un po’ a una per niente latente  presenza infantile sparita nel nulla, un po’ a quello là che conoscevamo… poi di nuovo a me, poi di nuovo a te, poi di nuovo a tutti, poi per fortuna no a chi si vuole bene, poi invece purtroppo sì.

E chi è lo sciagurato fortunato che non ne ha dentro una fetta, anche sottile come una di Langhirano?

All’uscita, viene voglia di rivederne i primi tre quarti d’ora per riconciliarsi col film per intero. Ma viva Avati comunque. E grazie Maestro per il tanto lavoro, sempre, che è come quello anche di un solo film: difficile faticoso impegnativo pieno di incognite sebbene conosciuto, che fa sudare sangue all’anima; anche se amato.

lele cerri

Grazie Ragazzi di Riccardo Milani con Tutti Bravi

Surprise! Surprise! Surprise! modulava un coro in una pubblicità di piselli congelati che alla TV inglese, in quell’inverno del nostro contento 1964-65, interrompeva ogni 15 minuti il film o quello che ci fosse in programmazione.

Un surplus di piselli da avere nausea di piselli e sorprese per tutta la vita.

Ma sorpresa, molto sorpresa, bella sorpresa, ieri sera al cinema Centrale, ex Pidocchino adesso sala di rodaggio per film di qualità ma anche non, dove ho vissuto quella sempre più rara sensazione, stato d’animo, mood, dolce trastullamento, di quando desideri che il libro che stai leggendo non finisca mai.

Anche se ero rassegnato all’idea-consapevolezza che tutto, più nel bene che nel male, finisce, non avrei mai voluto che Grazie Ragazzi finisse.

Eppure ero arrivato un po’ timoroso, non scettico, come spesso mi succede, ahimè, ma timoroso sì,  per il fatto che il soggetto teatro-carcere-istituto di detenzione ad ampio spettro avesse già illustrerrimi precedenti, tanto illustri che per loro illustrissimo è poco; il mio malanimo sprizzava una nuvola di  ‘facce ride…’, proprio quelli di cui platee incallite di matiné e serali cibavano artisti di avanspettacolo a digiuno perenne, platee smaliziate e precise nel lancio di  gatti morti tirati a tornichetto a  planare in piena scena o, con mano più consumata, in faccia al fantasista; insomma, la cattiveria dello spettatore pagante, sì, ma spesso anche di quello sfrontatamente ospite. Osso duro, lo spettatore! Di solito recita e dirige benissimo, almeno finché è in platea.

E invece no! Mi sono ritrovato in tutt’altro stato. Nodo alla gola? Bello incravattato, sì.

Rapito, emozionato fino alla commozione, continua, costante, per tutto, per la bellezza della proposta che nel teatro c’è vita, salvezza e speranza nostra, salve, come ci hanno insegnato da piccoli anche in latino, sia all’oratorio che alla messa chic di mezzogiorno con le signore impellicciate, il braccialetto a manetta o di sterline d’oro al polso.

Commosso per tutti i segmenti che hanno composto l’unicum della trama, coinvolgenti sempre, senza aver nessuna remora a riconoscere con onestà la bellezza di commuovermi per ogni che succedesse sullo schermo, perfino delle furbizie che fluttuavano per tutto il film; anche un po’ della sua ruffianeria buonista un tantino alla Frank Capra, come avrei rimuginato poi, ruminando, ben dopo l’uscita, come si fa quando ripercorri criticamente un’emozione.

Che mi sia vergognato con me stesso per aver avuto le gote umide per tutta la durata della proiezione? No. Commosso. Per tutto, per la sfrontatezza del continuo proporre una disperazione che nell’ottimismo e nella bontà montessoriana ci fa continua zuppetta come nemmeno nelle prime candid camera del duemiladodici a.C. , quando freschi spettatori televisivi all brand new inebriati da Nanni Loy. Ma no! Macché vergogna! Nemmeno per sogno, sai che c’è?, stasera, dai Bravi Ragazzi, ci torno.

E nell’assurda speranza che quel Godot bellissimo non finisca mai, si arriva sfiancati dal senso di bellezza che molte cose hanno perduto la capacità di infondere e che qua ti riveste di continuo, per tutto ciò che compone il film e che in tessere, nuvole, momenti fitti di sé, ti arriva addosso e ti avvolge del tempo e del pulviscolo ormai immaginario della proiezione. Che sai deve inesorabilmente finire, di cui ogni momento è un momento in meno, che ogni momento è lì ad avviarsi verso la fine. Anche questa è una delle tensioni che il film riesce a creare, che lo creano, che lo compongono.

Ma.

Anche il finale è bello astuto. Per accompagnarci o buttarci fuori da quella bambagia irsuta in cui il film ci aveva adagiato, al film occorreva una soluzione a quel punto difficile, un gimmick come dicono gli americani fin dai tempi del Vaudeville nella loro lingua ormai a noi tanto cara da risultarci indispendabile, una trovata, e la trovata è stata trovata. Ha un po’ meno tensione di qualsiasi altra soluzione e di qualsiasi momento del film, ma ci ha offerto una coraggiosa soluzione-alternativa ai pericoli che una storia-plot-trama così fatta correva nel finale.

Non avrei mai pensato, quando ho deciso di andare a vedere Grazie Ragazzi, che mi sarei ritrovato a rifletterci più di tanto.

Ci tornerò. Non foss’altro, per la goduria indecente, spudorata, di vedere recitare così bene, tutti, sorprendentemente, come non vedevo da anni in questa Italia cinematografica, o generalmente scenica, da troppo tempo diventata così smanaccante e ammiccante.

Lo svergognato coraggio, la presunzione di poter essere tanto sentimentali da far venire voglia di vedere ‘sto benedetto Godot, da riuscire a incuriosire sul fatto che esista, da far venire voglia di cercarlo dove non c’è più da tempo.

Surprise, alla francese o all’inglese che sia, sorpresa, bella! Anche se illuminati illuministi vorranno condannarne in eterno il coté sentimentale che loro potrà sembrar pari al fascino egizio che non nascondeva l’artefizio di Lola Prima.

A più tardi, ragazzi, torno a vedervi.

MAIGRET Patrice Leconte con Depardieu

25 settembre 2022

 

Ho visto Maigret di Patrice Leconte con Gerard Depardieu. Non ho letto Simenon ma mi dicono che Maigret e La Giovane Morta da cui il film è tratto è parecchio diverso dagli altri 75 romanzi e 28 racconti anch’essi imperniati sul metodo Maigret.

Depardieu, solenne, dirà sì e no venti parole nelle tre battute in croce che ha in tutto il film.
Il film è bello. Leconte, si sa, lo abbiamo sempre visto, ha un suo linguaggio cinematografico molto letterario, sempre. Qua l’ho trovato crepuscolare, ma avrebbe avuto la stessa impressione anche un gatto, e di una malinconia che va ben oltre la malinconia. Anche un po’ schizofrenico: più che con i cut cut cut furiosamente rapidi, netti, ormai così indispensabili al cinema di adesso, qua Leconte ci sposta a spallate da una collocazione a un’altra che ci sarà da capire come attenga, con la camera che si sposta scavando come sguardi attenti a cercare qualcosa che si sa che c’è ma non dove e cosa sia, e lo fa tuffandosi in piani che funzionano come zoom-dettagli-primo piano di capigliature e di apparentemente inutili stoffe delle spalle di un vestito per proseguire e perforarle fino a trapassarle sprofondando nel pelo dei capelli e nella nuca di chi lo indossa per sbucare a inquadrare la faccia di chi gli è di fronte. C’è, c’è, c’è, da qualche parte c’è. Qui o altrove. Cercare, cercare, cercare è necessità, è un pensiero in cui si sprofonda di continuo con il più profondo sentire per quello cui è rivolto.
Un film pieno di tristezze lecite, con motivazioni personali dapprima  sfumatamente suggerite, poi fatte più nettamente sospettare e infine elementarmente addirittura dichiarate, in chiusura, come chiamate per nome.
Mentre lo vedi è un lavoro cinematografico che richiede l’attenzione su come è fatto, per come è fatto, per un continuo naturale invito a perderti nel cinema di cui è fatto il film, per un continuo suo voler portarti a sperderti in movimenti di ogni tipo, di camera, di luogo e di sviluppo, come fa la mente che cerca, e che mentre cerca ricorda, come fa l’occhio che vuole trovare. Insomma, stai attento al film, a non confonderti tra facce terribilmente tutte uguali delle figure femminili messe lì così come a confermare ossessivamente un modulo al quale non si riesce a sfuggire. La tragedia avvenuta, la intuibile morte della figlia, poi acclarata da una irresistibile, innegabile legittimazione a chiamarla quasi per nome, si perpetua, è perpetuata da quello sguardo-camera-pensiero-contenutodiMaigret che cerca, fruga in una mobilità che non è un cut cut cut ma è inquietudine, di quella seria, profonda, che chi la porta e chi la percepisce può di diritto chiamare dolore.
Insomma, vai al cinema, poi esci dal cinema, vai a fare due passi convinto di aver visto un film e, arrivato a casa, da solo, ti affiorano tutti i sapori morali sentimentali umani dei quali il film è non così semplicemente impregnato.

 

I suicidi del mondo

Ogni tanto il mondo si suicida

Stiamo combattendo una guerra minacciosamente interminabile per una causa assurda e che in realtà non esiste e le cui vittime sono e saranno vittime di quella follia che quando da laica diventa istituzionale si veste di una sgargiante inaccettabilità dalla quale non la monda nemmeno la sua inverosimiglianza. Sarà strenuo mondare tutti i colpevoli dai loro peccati.  Come non meriterebbero, i colpevoli di peccati di cattiveria e di trasversale bontà verranno consegnati alla storia, assurgeranno al vanitoso ruolo di inquilino dell’eternità; ruolo per il quale hanno declinato quel senso di responsabilità e di consapevolezza che semplicemente si hanno o si dovrebbero avere , se non per altro, come semplici esseri parte di un’umanità che troppo sovente non comprendiamo o alla quale non ricordiamo di appartenere, una società della quale non abbiamo alcun senso, nessuna coscienza, come nemmeno abbiamo più coscienza dei nostri ricorrenti suicidi; e più nemmeno dei morti.

La battaglia degli Eroi
lele cerri 1997 – La battaglia degli Eroi                  (ferro e mescola  cm.45x30x30)

Nous menons une guerre qui semble déjà interminable pour une cause absurde qui en réalité n’existe pas et dont les victimes sont et seront victimes de cette folie qui, lorsque de laïque devient institutionnelle, s’habille voyante d’inacceptable dont même son invraisemblance ne la purifie pas. Il sera difficile de purifier tous les coupables de leurs péchés; comme ils ne le méritent pas, ils seront relégués à l’histoire, ils s’élèveront au rôle vaniteux de locataire d’éternité pour lequel ils ont décliné ce sens de la responsabilité et de la conscience, que l’on a simplement ou devrait avoir en tant que simples êtres faisant partie d’une humanité que trop souvent nous ne comprenons pas ou à laquelle, trop souvent, ne nous souvenons pas d’appartenir, dont nous n’avons pas le sens, aucune conscience, comme nous n’avons aucune des nos suicides récurrents; ni des morts.

We are fighting a menacingly  interminable war for an absurd cause which in reality does not exist and whose victims are and will be victims of that madness which, when from secular becomes institutional, takes on a flamboyant unacceptability from which not even its improbability will purify it. It will be strenuous to cleanse all the guilty from their sins; as they do not deserve, they will be consigned to history, they will rise to the foppish role of tenant of eternity for which they have declined that sense of responsibility and awareness that one simply has or should have as simple fragment of a humanity that too often we do not understand or to which we do not remember we belong, of which we have no sense, no consciences, as well we have none of our recurring suicides; nore of the dead anymore.

 

 

Nothing remains. Barche vita mia.

7 agosto 2021 ( Ital+Engl)

(m/y Nidas in navigazione – by courtesy Mr. Alfredo Tessi))

Tutti i veicoli d’epoca che ho usato per i miei spostamenti erano italiani e degli anni ’50. Anzi no, uno era inglese. All’epoca mi muovevo spesso. Quando riuscii a comprarmi una barca, pensai che ce l’avevo fatta, ero davvero felice; quella barca, proprio lei, l’avevo vista molto tempo prima e me ne ero innamorato al primo sguardo, subito. Tutte le barche a bordo delle quali sono salito o che ho guardato a lungo da piccolo e anche dopo, dalle banchine sulle quali ho passato le ore più felici della mia adolescenza, sono rimaste impresse nei mie occhi e nel mio cuore; ne ricordo minuziosamente e con emozione ogni particolare delle linee degli scafi, la distribuzione delle sovrastrutture, oblò, occhi per guardar loro dentro, sartie e crocette degli alberi, la bellezza di bozzelli in legno in schooner inglesi degli anni ’10 e ’20 del novecento, la riga colorata, gialla o blu, delle loro linee di galleggiamento, le vele, i dettagli della poppa, l’imponenza e snellezza degli alberi. E la girandola immobile delle eliche quando erano in secco sugli scali.  Comunque, tra tutte, quelle che mi sono rimaste care come le zone più belle di quella mia età delle crescite sono la prua dritta del Sibilla e del Perry, la lunga poppa a ventaglio del vecchio motor yacht dall’aria straniera che si voleva fosse stato degli Antinori e divenne il primo bar galleggiante del porto, il Nidas, indecifrabile, forse di origini francesi, dal naso alto e lo specchio di poppa di una sottigliezza che gli faceva accarezzare la scia: e poi le linee già più flessuose e lanciate verso la modernità di Edna, del Dentale e della sua quasi gemella Qibla, del San Giorgio e del Filippo II, l’assurdità catturante del Mavì, brigantino goletta in ferro con lamiere imbullonate che coi suoi casseri, alberi, pennoni, trinchetti e doppi bompressi sembrava già pronto a portare in una comoda andatura di lasco Capitan Uncino nelle maree dipinte tra le luci sui pannelli dei flippers, a trasbordare giocatori  in qualche futura, ancora sconosciuta, imminente gara digitale su percorsi ancora più luminosi, tra cosi tante nuove intermittenze di lampi e di suoni, vocine stridule, voci imperiose o nasali,  meccaniche, ammiccanti o minacciose, campanelli e risa sbeffeggianti da fare invidia al fantasma di Canterville. Il Mavì: fantastica fantasiosa barca dispersa nelle luci dei ricordi non si sa in che foschie sia invece finita.

Non resta nulla del’Alca, del Puck, del Roby né di quegli altri garbati, piccoli RORC dagli 8 ai 12 metri,  così marini, svettanti sull’onda come rondini e rapidi come falchi ancora nella bellezza del loro legno nell’imminenza della vetroresina.

Non resta nulla… lo scafo magnifico dell’Old Fox dalle linee sinuose, che accoglievano l’occhio e lo facevano loro per sempre, un ketch inglese del 1907 di impressionante bellezza, sopravvissuto a guerre e tempeste e che adesso, gli alberi ancora eretti, il boma della maestra semi-accasciato sulla (imperterrita) coperta di teak,  l’albero di mezzana ormai senza sartie ridotto a bastoncino per la girandola di un bambino, stava morendo, ancora magnifico, fiero, ancora dritto in chiglia, conscio della propria bellezza, nell’invasatura che aveva ceduto, quasi appoggiato a un muro di cinta che sembrava aspettarlo, sullo scalo più remoto di un cantiere in piena attività.

Non resta nulla.

(Viareggio barche all’ormeggio Darsena Europa fine anni 50 cartolina)

Nothing remains. Boats, my life.

All the vintage vehicles that I used for my travels were Italian and from the 1950s. Indeed, no, one was English. I used to move frequently at that time. When I managed to buy a boat I thought I had made it, I was really happy; that boat, just her, I had seen it a long time before and I fell in love with it as soon as I saw it, immediately. All the boats on board which I got on or which I looked at for a long time as a child and even after, from the quay, have remained etched in my eyes as well as in my heart; I meticulously and emotionally remember the lines of the hulls, the distribution of the superstructures, the sails, the colored line, yellow or blue, of their water lines, the details of the stern and the masts. And the motionless pinwheel of the propellers when they were out of the water on the slipways.

However, among all, the ones that have remained dear to me as the most beautiful areas of my adolescence are the straight prow of the Sibilla and the Perry, the long fan stern of the old foreign-looking motor yacht that was supposed to have belonged to the Antinoris and became the first floating harbor bar, the enigmatic Nidas, of French origins, high-nosed and her transom to caress the wake; and then the lines already more supple and launched towards the modernity of Edna and Dentale and of its almost twin Qibla, of San Giorgio and Filippo II, the capturing absurdity of the Mavì, an iron brig schooner with bolted plates that with its masts, yards, foresails and double bowsprits seemed ready to take Captain Hook, in a comfortable slack reaching gait, from the docks and pinball machines, where he was already vanquishing rivals and competitors, to some future, still unknown imminent digital competition along even brighter paths, to get stunned, who knows, and slipping brilliantly dizzy in dives and emersions in and from so many new intermittent flashes and sounds, among shrill, nasal and mechanical  winking voices, bells and mocking laughter to make the Canterville ghost envy. Mavì: fantastic imaginative boat dispersed in the lights of memories, no one knows what mists it ended up in.

Nothing remains… the magnificent hull of Old Fox with its sinuous lines, which welcomed my eyes and made them their forever, a ketch of impressive beauty, which had survived wars and storms, the masts still erect, the main sail boom half-slumped on the (undeterred) teak deck, the mizzen mast now without shrouds reduced to a stick for a child’s pinwheel, was now dying, still magnificent, proud, still straight on the keel, conscious of its own beauty, on a socket that had given way, almost leaning against the farthest boundary wall  that seemed to be waiting for him, by the most remote abandoned slipway of a shipyard in full operation.

Nothing remains.

(m/y. Nidas in navigazione – by courtesy Mr. Alfredo Tessi))

(foto del 1951 di ALCA I  – costruzione cantiere Bergamini Viareggio su progetto Bergamini e dell’armatore Fausto Tessi)

(foto del Nidas e di Alca I gentilmente concesse dal Sig. Alfredo Tessi)

La magnese del Fabbri. Viareggio delle estati.

La magnese del Fabbri a manciate ci schiumava in bocca più del libeccio sulle onde delle nostre sverinate di poco prima, le schiene inarcate, il petto a dividere le acque come nemmeno Mosè, come lanciati verso una salvezza, la testa immersa tra le braccia allungate in avanti, le punte delle dita a polpastrelli raggrinziti che facevano a tratti capolino dall’acqua là in cima alle mani distese a emergere mentre si scivolava veloci verso le secche, a navigare come temperini sull’acqua sempre più bassa, sempre più bassa, fino a raschiare il fondale ondulato, fino a terra, a riva, ormai arenati, spiaggiati, le ultime lingue di mare che ci raggiungevano carezzevoli ci scavavano intorno ai fianchi in mulinelli morbidi a riempirci i costumi di sabbia. Ora, al libeccio in cima alle cabine la magnese del Fabbri a manciate ci schiumava in bocca, il cartoccino di carta grigina subito vuoto. La prossima volta forse sarebbe stata una gazzosa.

Viareggio delle estati.

2 agosto 2021