Il corsivo di Lele Cerri – Il peso della bellezza – Nuova Ciminiera 09 settembre 2018

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Lele Cerri

Mentre le modelle grissino Twiggy-ramoscello e Jean-gamberetto    portavano  su e giù per quei moli anglo-franco-mondiali della fashion beauté che erano le passerelle anni 60 i loro trentotto o quaranta chili di peso percorrendo quelle folgoranti ribalte leggere come piume, evanescenti e cariche di una grazia inconfutabile quanto impalpabile, la Luigia profondeva ogni suo impegno e ogni robusta forza che straripava dal suo fisico paramilitare d’assalto nell’ infilare i suoi 84, di chili, in minigonne che lei riusciva a ricavare da scampoli di tappezzerie e trovarobati d’abbigliamento a suo credere molto up-to-date coi quali di giorno in giorno superava se stessa e colui che in epoca lontana aveva ideato il broccato, annientandolo nella, a paragone, semplicità della sua invenzione, con i suoi celebri, temuti quanto attesi broccati-patchwork; con addosso i quali, lei affrontava combattiva la lotta che quotidianamente le compagini femminili del L.C. Giosué Carducci ingaggiavano per essere guardate dal più bello dell’Istituto: il Serapioni Gigli, media dell’otto, palazzo avito. Biondo. Che la guardava eccome, la Luigia,  inebetito da ogni suo apparire, dal suo puntuale portare il mento in alto entrando nel portone dopo aver  attraversato il cortile con lo stesso incedere con cui lei credeva che la Shrimpton o la Twiggy riguadagnassero le quinte dopo ogni loro vai su e giù con miniabiti geometrici, minigonne non ancora micro ma comunque piccoline davvero, mini-altro e mini-chissàcosa di petali di begonia di rasatello o cellophane tenuti su da un niente di stringhe che, a rischio di segargliele, si appoggiavano sulle spalle di quei due fuscelli come viperini capelli d’angelo; o forse, quelle quasi suggestioni di abitini e stendardini pelvici erano semplicemente sorretti dalla sola imbronciata felicità di quelle sottilissime fette di fanciulla che sembrava che, più che abiti, sfilassero, a tratti cercando di negarla con bronci infantili da vicina di casa di Lewis Carroll, la loro gioia di essere giovanissime ed eteree, e celeberrime, e mitiche. E ricchissime; tanto che, se in quell’epoca di figli e figlie dei fiori, avessero voluto pensare ad una loro nonna, il loro pensiero avrebbe dovuto e potuto volare, posandovisi leggero, fin su di un’orchidea rarissima e preziosa se non su una qualche Camelia-nobilis  del Sahara  o Gardenia-regale delle Ande o Asfodelo-tibetanus ancora tutti da scoprire, magari nel corso di  un qualche loro ieratico viaggio in una nuova Shangri-là.

Il degagé impegnatissimo del Serapioni Gigli  – giovane N.H. le cui giornate erano scandite da un puntuale rapsodico componimento di tweed e cachemere e alpaghe e english shoes con  un’ immancabile, appena percettibile “che” di stonato come una cravatta o un qualsiasi altro accessorio sapientemente fuori tono che l’eleganza edoardiana da lui mai un sol istante dimenticata raccomandava – costruiva, assieme all’ imperioso e autorevole ‘fai da te-fai di più’ della Luigia, l’autentico avvio, per via oftalmica, della nostra giornata.   Erano, il Serapioni Gigli e la Luigia, la più conclamata prova, e il più semplice e accessibile esempio in cui avremmo potuto sperare, delle idee di convivenza, di differenza di stili, di compatibilità degli opposti all’interno di una stessa struttura – la nostra classe – ; ed anche  di sinergia, visto quanto la  Luigia, nella determinazione di conquistare il Serapioni Gigli a forza di mini-salopettes e mini-falpalá in broccato e il Serapioni Gigli, con la sua volontà di ammaliare comunque anche la Luigia per non rinunciare nemmeno a una sola tacca sullo stipite-bloc notes delle sue conquiste, lavoravano molto produttivamente a garantirci quello che sarebbe poi diventato più in là lo sviluppo televisivo-internazional-popolar-familiare-stiro-cucino e ascolto dei concetti per i quali ognuno ha il diritto di amare, che anche i ricchi piangono, e di quanto si possa essere schiavi d’ amore, amati o amanti che siamo, schiavi cioè della pirotecnia del nostro amore per qualcuno, dell’amore di qualcuno per noi, o anche solo del nostro per noi stessi.

Mentre Londra, dopo aver ringhiato un bel po’ con i teddys e i mods, ruggiva sempre più forte in sottofondo alle raccomandazioni agli yé-yé di vivere bene e volersi meglio musicate e cantate dai lindi Beatles, la Luigia e il Serapioni Gigli sviolinavano l’una per l’altro e l’altro per sé la sinfonia dei loro guardaroba. Un ricordo che nella memoria riscalda le impronte ancora gelide di quella sfilza di spietate otto del mattino invernali  è quello delle loro apparizioni, l’uno a poca distanza dall’altra,  nell’atrio dell’Istituto: con il defilé con aria da ripasso di Seneca fumando una  Kent, dell’uno, sul marciapiede sul quale l’altra scendeva dalla macchina del fratello deputato a salvaguardare la sua totale, certissima, indubitabile integrità da eventuali disperate imboscate di chi non avesse alla fine più saputo resistere a tutta quella grazia di Dio avviluppata in quella marmellata di farfalle o soppressa  di bandiere internazionali, di quel frullato di campionari tessili ed eclettismo architettonico che erano le sue mises. Lanterna magica,  caleidoscopio, enciclopedia di colori e linee caduta nel pentolone della ribollita.

Il lampo dello psichedelico che in quegli anni illuminava il mondo era niente di fronte a quell’aurora boreale che erano i composé optical-rococò della Luigia, organizzati come un disegno di Hescher, che secondo il tuo umore e disponibilità del momento ti portavano sicuramente da qualche parte senza che tu potessi più essere in grado per il resto della tua vita di sapere dove e come c’eri arrivato. In quegli anni con le generazionali piantagioni di additivi vegetali ancora acerbi e di laboratori di chimica   underground ancora  freschi di calce, noi, pochi libri incerottati in una cinghia di gomma, ogni mattina eravamo automaticamente generosamente addizionati dall’ offerta continua della Luigia-Production, etonnante, stordente, sorprendente e insieme quotidianamente garantita, comoda e servita lì come un toboga imburrato come una fetta di pane sul quale scivolare, l’una e l’altra mattina, con continue varianti a seconda di  che rotta avesse deciso l’ impegno che la Luigia quel giorno aveva scelto, come sempre, di profondere per conquistare il Serapioni Gigli a botte di modeling; impegno  che, anche nelle giornate di stanca, faceva impallidire quello di Grimilde davanti allo specchio delle sue brame, delle sorellastre cattive di fronte all’ idea del ballo, di un Narciso inamovibile e impavido e imperturbabile di fronte al rischio reumatismi e della maga Enotea dalla bellezza  inarrivabile ed oltraggiosa.

In un’epoca in cui assieme ad hot pants a stelle e strisce “alti” come un ansaplasto, gonne ad effetto mantovana non più alte, dall’orlo alla cintura con fibbia da un chilo, di un cassetto di comodino con dentro una porzione di ragazza ultramoderna e ultralanciata verso una vita assolutamente intesa come interminabilmente da ragazza  ultramoderna e ultralanciata – in quel tempo in cui, nonostante l’avvio verso l’amore libero e bello e la famiglia dove capitava di farsela, si avviavano latentemente al trionfo i concetti di partenogenesi e non avrò altro figlio all’infuori di me – la perenne floridità della Luigia dirompeva straripando da quegli accenni d’abito coi quali la moda pretendeva d’essere omaggiata da ogni, ma proprio ogni, ragazza rinfrescandoci, in alcuni casi – col soffocare devoto di alcune dentro ogni che ci fosse di piccolo e sottotaglia –  il ricordo delle balie strabordanti dai corsetti conosciute nei racconti pieni di latte di campagna, umano e bovino, delle nonne e delle prozie.

Aver perso di vista la Luigia, negli anni immediatamente post scolari, mi fa sentire come derubato della testimonianza  diretta di un bel trancio di possibilità-esempio di evoluzione della specie. E più dell’ infinita lungimiranza della Twiggy che “cavalcata l’onda travolgente degli anni Sessanta” (M.C. Repubblica 28/09/02) “non ne conobbe l’infrangersi, la deriva”  prendendo in tempo “le distanze da un mondo al limite” – quando si dice il buonsenso, signora cara! – mi affascina la capacità della Luigia di essere silenziosamente andata, di sorpresa, oltre ogni apparentemente lampante scontato orizzonte già delineato da ingannevoli evidenze.

Un anno dopo il liceo, dopo cinque anni in cui l’aveva guardata come le Rolleiflex dell’epoca guardavano le auto pubblicitarie del Binaca fatte a forma di tubo di dentifricio al seguito del giro d’Italia attraversare Piazza Duomo a Milano e come in epoca successiva Boldi avrebbe guardato Moira Orfei sdraiata in turbante sotto un elefante, il Serapioni Gigli la Luigia la sposò. Da allora non ne sappiamo più niente, nessuno. Di tutta la classe nemmeno uno ne sa qualcosa. So soltanto che si trasferirono a New York. Ma quando ho letto di Twiggy su quel giornale che ne celebrava le qualità e la forza di mito intatto e di sopravvissuta al crollo di un’epoca titolando:  “Prima modella poi mito. Twiggy torna a sfilare a Roma”, ho avuto un brivido. Ho rivisto come un lampo scorrermi davanti agli occhi le mattine di cinque inverni, mi sono sentito in bocca di colpo il gusto di determinazione dell’ impegno di 84 chili di Luigia a camuffare da defilé hippy-surreal-camp-burino-peloponnesico la sua corte al Serapioni Gigli. E nell’animo una convinzione come una rivelazione: non era Twiggy a Roma. Era la Luigia.

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